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Come l’ombra

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In una Milano svuotata e irriconoscibile si trascina l’esistenza di Claudia. Una donna che sembra vivere sotto vuoto, incapace di esprimere i propri sentimenti, a distanza di sicurezza da qualsiasi cosa.

Una donna aggrappata alla sua quotidianità, al lavoro (un’agenzia di viaggi), ai pochi amici (dovrebbe raggiungerli per una vacanza in Grecia), agli incontri con la sorella e la madre (che le prepara sempre il polpettone). Claudia segue un corso di russo. Gli capita di iniziare a frequentarsi con il suo nuovo professore.

 La regista lavora sui silenzi, sulle attese. A volte riprende Claudia come se fossi in un acquario, da dietro una vetrina, con il sonoro attutito. La guarda nel suo mondo chiuso, la contempla nella sua solitudine. E la Milano mostrata diventa espressione di tutto questo, i palazzi, i cartelloni, le strade vuote. Le immagini parlano di quello stato d’animo che la stessa Claudia sembra incapace di confessare a se stessa. I luoghi si trasformano, non sono più semplice architettura, ma suggeriscono delle emozioni, sussurrano il disagio e l’isolamento, il corpo della città rimanda il proprio malessere al posto di quello dei personaggi che invece sembra essere assente, proprio come un’ombra.

 Boris, il maestro di russo di Claudia, chiede alla donna se può ospitare una sua cugina per qualche giorno. Claudia, da prima incerta, si lascia convincere e riceve così in casa la cugina di Boris. Tra lei e Claudia nasce piano piano qualcosa, un gioco di emozioni e complicità, tutto molto rarefatto, nascosto, espresso in maniera quasi impercettibile. Olga vaga per Milano, nei negozi dei cinesi, tra i suoi connazionali. Marina Spada, nel mostrare la vita degli immigrati, dei loro luoghi d’incontro, delle loro piccole comunità, sceglie uno stile ai limiti del documentarismo, che coglie anche in questo caso una MIlano inedita e globalizzata, non dalle sfilate e dall’alta moda, ma da tutta un’umanità in movimento verso il sogno di una vita migliore.

 Poi un evento improvviso rompe questo strano equilibrio che si era venuto a formare tra le due donne. Claudia sembra prendere finalmente una decisione, infrange la sua passività e cerca un cambiamento nella propria esistenza.

Come l’ombra è un film che cerca veramente di esprimere qualcosa, un disagio, un vuoto interiore. E lo riesce a fare prima di tutto con le immagini, con poche battute, riducendo i dialoghi allo stretto necessario. E proprio in questa scelta si percepisce un approccio diverso nei confronti del cinema, soprattutto del nostro cinema recente. Si ritrovano quelle atmosfere rarefatte tanto care ad Antonioni (citato dalla stessa regista come uno dei suoi autori più amati), si toglie ad una città come Milano ogni elemento di facile riconoscibilità, si lavora sulla colonna sonora come elemento espressivo e non solo come semplice amplificatore emotivo. Marina Spada si concentra sui sottotesti, su quello che rimane fuori campo, su tutto quanto non viene detto ma solo suggerito, accennato, lasciato alla comprensione dello spettatore.

 Questo film è un’opera coraggiosa (la stessa regista ha fatto un mutuo per realizzarlo), personale, lontana dalle semplici soluzioni a cui ci siamo abituati, che tratteggia il malessere femminile in maniera precisa e consapevole, fuggendo dalle semplici soluzioni.

 Molto belli i versi finali, di Anna Achamatova, recitati da Olga a Claudia, che danno il senso e la giusta profondità di tutto il lavoro svolto da Marina Spada.

 

Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo

Come vuole la carne separarsi dall’anima

Così adesso io voglio essere scordata.


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