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“Boxe, fotografia; Facce, Perdite e Antiche Vittorie”

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E’ stato segnalato dal portale del quotidiano la Repubblica (www.repubblica.it ) come Fotoblog della settimana, io lo seguivo da un po’ di tempo. Si tratta del lavoro di Paul Willaert, un belga che  viene definito “il fotografo della piccola boxe”. La didascalia dice che riprende i piccoli ingaggi, le piccole palestre, la gloria che forse non arriverà mai. Sono gli scatti in bianco e nero di un’umanità alla deriva. E’ una bella segnalazione e qui http://eyeswideshut.my-expressions.com/index.html trovate il photoblog di Willaert che si occupa di boxe, certo, ma non solo, soprattutto di varia umanità. Di volti, di visi, di persone, di facce. I suoi scatti sono interessati a cogliere il dettaglio in grado di amplificare o semplicemente offrire la decenza, la bellezza, la grandezza dell’umanità. Le sue inquadrature si concentrano spesso su giovani nel pieno delle forze o su vecchi che guardano, occhio dentro l’occhio della camera, e che paiono portatori di una memoria costellata di cicatrici, memorie o sconfitte. Certo la boxe è un punto di vista eccellente per avere la possibilità di un’inquadratura sulla gente, questo colpo d’occhio potente sull’umanità. Resta un mondo, come scrive Antonio Franchini nel suo bel libro Gladiatori, Mondadori 2005 “…la cui durezza non riesce mai a cancellare del tutto l’ingenuità di un sogno e l’illusione sul proprio destino…quartieri di periferia, palestre, ambienti apparentemente chiusi eppure sempre spalancati sulla mistica della sofferenza, il miraggio della gloria, il bisogno di appartenere a un mondo dalle regole implacabili, ma certe”. Questo fotografo geniale e commovente porta in giro le sue ferite, le sue vanità, le sue curiosità e guarda,  guarda e scatta. Il titolo del photoblog non è di certo casuale. Guarda la gente, la “piccola gente” che si insinua nella sua memoria, che diventa emblema e feticcio letterario ma con la potenza e la dirompente immediatezza dell’immagine. Soprattutto  quelle in bianco e nero (quelle a colori risultano più scontate, eccellenti, ma con un sapore di già incontrato, già ammirato, con i tratti di un’estetica convenzionale) Forse, ci sono i tratti di  un’estetica convenzionale anche a schierarsi e a cercare i perdenti, o chi cova e mostra negli occhi, negli scavi, nei graffi le speranze e le delusioni, ma io credo e continuerò a credere che una scelta di questo tipo sia “etica” e che la dimensione “estetica” diventi secondaria, non inferiore, non da sottovalutare, solo la seconda scelta. La prima scelta è il netto mettersi da una parte, il decidere di combattere la stessa battaglia, di sentirsi parte dello stesso assedio. Comunicare che ci siamo, nella zona dura, dove tutto cade, si consuma e si corrode. Il “bel vedere” lo lasciamo sulle colline amene di certe città o nelle passeggiate sul mare.  Il “bel vedere” come regola di vita lo rigettiamo e utilizziamo il colore perché la carne sia distinguibile, le pelli,  le contaminazioni siano visibili. O per l’acqua di una piscina vuota. Stop. Sapere che nel mondo c’è sempre qualcuno che ricaccia indietro lacrime, che raspa nel fango di quello che ha perduto, che tira a campare, che si ingegna, che passeggia, qualcuno che ha accantonato un sogno da accarezzare, una relazione da aggiustare, qualcuno che cerca di guadagnarsi da vivere e qualcosa che ci ricorda tutto questo è importante, utile, a mio parere, utile perché ci indirizza la pupilla, ci fa segno, ci rimette la testa sulla traiettoria. Un lavandino, un ring, una casa popolare, una periferia. Perché anche nelle periferie , in un caffè o accanto al ferro di una strana scultura, quel mondo del ring, quelle regole implacabili, serbano il loro ruolo, lo incarnano, lo perpetuano,  sempre di più, in maniera sempre più ineluttabile e seminando più dolore, un dolore ormai “globalizzato”, spogliando  la nostra piccola “area protetta” di minuetti  e di serrature con violenza crescente anche se cerchiamo girando lo sguardo nuovi minuetti e nuovi abbagli.

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