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La scrittura della differenza

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La scrittura della differenza edito da manifestolibri è una raccolta di quattro testi teatrali vincitori (ma di cui uno è segnalazione) della terza Biennale internazionale di drammaturgia femminile, un evento importante sia per lo sguardo internazionale che comprende paesi come Italia, Spagna, Portogallo, Argentina e Cuba, che per la particolare attenzione al discorso della ‘diversità’ (intesa come per Mayer: I diversi o Braidotti: Madri mostri macchine) che si caratterizza per le particolari scelte di limitare il festival ad autrici donne e inoltre che provengono da paesi che rappresentano una certa cultura ‘diversa’ di un delimitato Sud del mondo. E come scrive Anna Maria Crispino nella prefazione: “La Biennale ha lo scopo di valorizzare e promuovere l’opera delle drammaturghe, mettendo l’accento sulla differenza di genere e quelle culturali ed etniche: se, come sostiene Alessandra Riccio nella postfazione a questo volume, una delle caratterizzazioni del dominio coloniale è stata la «femminilizzazione» del Sud, nel segno dell’inferiorità, l’incrocio tematico non è peregrino.”   

I testi sono caratterizzati tutti da una forte tensione contemporanea che si diversifica in ognuno di loro per caratteristiche diverse e appartengono a quattro donne di teatro forse molto differenti tra loro ma con un vissuto dedito all’impegno artistico.

 

FRONTERA, il primo dramma della raccolta è un atto unico di Gabriella De Fina e come si può già intuire dal titolo il linguaggio è meticcio (troviamo frasi in spagnoli comprensibilissime qua e là e anche qualche parola in inglese) e il contenuto riguarda la migrazione, quella più difficile, quella più bastarda dove le frontiere esistono ancora e a volte diventano per alcuni come giocare alla ruolette russa. La drammaturga lucana (attrice e regista tra l’altro) come afferma nella premessa ha preso spunto per questa pièce da: “testimonianze reali di messicani che hanno passato clandestinamente la frontiera con gli Stati Uniti.” Così dopo averci suggerito per la messa in scena le musiche della cantante messicana Chavela Vargas si introduce nella descrizione della scena: una stanza con un enorme cartina geografica del Messico e degli Stati Uniti che fa da fondale e poi tanti oggetti ai lati della scena che la dividono in un equilibrio precario tra simulacri di una cultura Andina a sinistra, e a destra gli oggetti un po’ surreali della cultura Yankee, transatlantica e arrogante, quella del “Dio tecnologico”. Perciò una scena condivisa da una cultura umanistico-religiosa e una del consumo = l’essere e l’apparire. I personaggi sono due: Beto e Xavier, e si alternano lunghi monologhi (ma i dialoghi non sono inesistenti) caratterizzati a livello contenutistico da quella che fu la loro esperienza da quando e come sono partiti di casa fino all’arrivo negli Stati Uniti del Nord. In questo modo siamo compartecipi di una narrazione (e il termine è specifico di un tipo di teatro di prosa che sembra essere rispecchiato anche dalle note di regia) dove si alternano due punti di vista che, pur partendo da una cultura comune e da esperienze di sfruttamento simili, si divaricano fino a diventare antitesi l’uno dell’altro e così avremo alla fine l’emigrato che mantiene la propria identità culturale e un senso di appartenenza a certi valori, mentre l’altro ‘venduto’ ad un’integrazione falsa e divertente…

 

Mentre nel primo dramma erano le scelte del linguaggio che ci proiettavano in una situazione ai nostri orecchi contemporanea, nella seconda opera di questo libro: IO NON SONO CHARLOT di Liliam Ojeda Hernández è l’ambientazione: un set cinematografico con la scenografia di una strada. Il personaggio principale è proprio Charles Chaplin ma appare solo un escamotage per parlare della povertà (un po’ come nell’ultimo spettacolo di Stefano Massini: L’odore assordante del bianco, dove il personaggio di Van Gogh è preso in considerazione per poter parlare degli inganni della mente e della normalità e la sceneggiatura tra l’altro richiama molto un set cinematografico…tendenze?). Comunque questo dramma si caratterizza particolarmente sia per la personificazione della povertà che sfida psicologicamente il protagonista con un taglio graffiante sia per la divisione brechtiana delle scene in round che specificano le tappe della carriera dell’artista protagonista. E a proposito di Brecht cito questa battuta della povertà riferita a Chaplin inizialmente e poi particolarmente estraniante e diretta: “Un essere meschino e mediocre. E il pubblico un bambino sciocco e facile da ingannare.”

Il dramma procede nell’individuazione e la separazione a volte dolorosa tra persona e personaggio: Charlot che spesso sembra essere un incarnazione di ideali troppo grandi per un donnaiolo come Chaplin…ma alla fine lo spettacolo si conclude con il monello che dice: “Un sorriso…non costa nulla…”, un finale ambiguo che non può nascondere la tristezza che risiede naturalmente dietro il sorriso del comico.

 

Il terzo dramma vincitore della Biennale internazionale di drammaturgia femminile è di una scrittrice e drammaturga e artista visiva argentina: Sara Rosemberg, che nel 1975 scelse l’esilio e che ora risiede a Madrid. L’opera da lei proposta rispecchia a prima vista questa sua esperienza autobiografica delineandosi però all’interno di una tematica importante: la donna e il lavoro ovvero IL TRIPALIO. Il titolo curioso e studiato rispecchia la poetica del testo che è al contempo poetico e didattico ma sa essere concreto e inquietante: il colpo di genio è rappresentato dal fatto che lo spettacolo si svolge come: “Ballata per donna e un dizionario”.

Ma riprendiamo dalla prima scena: una donna, la protagonista: Maite è descritta seduta con le spalle al pubblico e illuminata da un fascio di luce, si sente soltanto la voce di un giudice che la interroga e inizialmente delinea una vicenda curiosa: l’imputata è colpevole di aver chiuso nel bagno dell’ufficio il capo e aver buttato via la chiave…ma ad un tratto si sente un’altra voce dire: “Mi dica”, è l’impiegato dell’ufficio di collocamento…non c’è lavoro…anche questa voce scompare e Maite si trova sola: il primo monologo: si dice di stare tranquilla che tutto si sistemerà ed è allora che prende in mano il dizionario di latino-spagnolo e cerca la parola lavoro: “Proviene dal latino volgare, Tripaliare, che significa «torturare» e deriva dalla parola Tripalio…una specie di gogna o strumento di tortura, fatto con tre pali. Tri-palium.” Da questo momento in poi iniziano varie scene in flashback dove la protagonista, spesso con ironia, rivive le esperienze lavorative ed esistenziali passate. Così si passa dal matrimonio alla separazione dal salone di bellezza al telefono erotico, esperienze che fanno riflettere sul contemporaneo intramezzate da scene non più in flashback ma in un presente che porta alla luce i travagli psicologi che la protagonista deve affrontare con gli esperti del settore che però tendono inesorabilmente a reprimere il problema prescrivendo psicofarmaci fino a quando lei stessa compone il: “Decalogo speculativo (per comportarsi da persone civili)” totalmente incentrato sull’autocensura. Il dramma si chiude riprendendo una forma a spirale, in un hotel dove avviene una scena di maltrattamento del capo nei suoi confronti e subito ritorna la voce iniziale del giudice che ci spiega come è andata a finire in quell’occasione: Maite rompe un vaso in testa al suo capo…e risponde al giudice: “Sì, proprio così. Non ho trovato niente di meglio…glielo assicuro, niente di meglio.”

 

L’ALTRA TEMPESTA, dramma segnalato dalla giuria è un testo scritto a quattro mani da Raquel Carrió e Flora Lauten entrambe originarie dell’Avana lavorano per il Teatro Buendìa e mentre la prima ha fondato la Scuola internazionale di Teatro dell’America Latina e del Caribe e la Facoltà di Arti Sceniche dell’Avana, la seconda insegna in quest’ultimo istituto recitazione e regia.

Quest’opera particolarmente interessante è un felice incontro tra testi e personaggi Shakespeariani e narrazioni delle culture yoruba e ararà del Caribe. È molto complessa da leggere…da addetti ai lavori…ma al di là del faticoso e nobile intreccio di personaggi e situazioni teatrali e mitologiche l’opera delinea un percorso da: “Il Vecchio Mondo” passando per: “La Repubblica” (sogno ideale ma contraddittorio) concludendosi con: “Calibrano Re”, scena in cui gli attori si tolgono le maschere ma al contempo soffocano e chiedendo al loro nuovo Re di portarli finalmente nella terra promessa. Un finale che riprende quelle tensioni sovraumane che durante tutto lo spettacolo vengono incarnate da quei personaggi afro-americani che rappresentano varie divinità: Oshún, divinità dei fiumi; Elegguá che apre e chiude le strade e Oyá, regina dei morti, tutti e tre figli come Calibrano di Sicorax.

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