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L’impresa irresponsabile – Luciano Gallino

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Di un saggio come questo se ne sentiva davvero il bisogno.
Perché fornisce una bussola ponderata per chi voglia orientarsi nel marasma che pare abbia, da una quindicina d’anni almeno, travolto i paradigmi macro-socio-psico-economici, e perché no?, anche storiografici, che ci avevano trasmesso come ermeneutici della realtà in cui viviamo.
L’uomo medio contemporaneo, infatti, viene bombardato da exploits mediatici che narrano di fragorosi crack finanziari, causanti la rapida vaporizzazione di risparmi – sovente anche quelli destinati all’accantonamento pensionistico – di tanti piccoli investitori.
L’impatto socioeconomico che deriva da ogni dissesto, da qualsiasi parte del mondo parta, è paragonabile al famigerato crash di Wall Street nel 1929.
Eppure, i tiggì pompano enfatici i dati ISTAT relativi ad una ripresa economica da record (ultimamente, si è risaliti al 2%, o poco più, del pil).
Ecco perché un testo, divulgativo ma mai semplicistico, scritto da un “addetto ai lavori” (mai definiens fu più azzaccato, dato che di un sociologo del lavoro si tratta), costituisce un contributo basilare per restituirci quelle macrochiavi di lettura che, sviscerate nei loro effetti e nei loro correlati, conducono a ricostruire un percorso ermeneutico che va dal crack Parmalat all’aumento della violenza a livello microsociale.
Concetto centrale del saggio, al punto da intitolarlo, è la cosiddetta IMPRESA IRRESPONSABILE, generata da ciò che potrebbe dirsi una sorta di mutazione genetica del capitalismo manageriale, che, da produttivista qual era dal secondo dopoguerra fino, in media, agli anni Ottanta del Novecento, si è trasformato il CAPITALISMO MANAGERIALE AZIONARIO.
Da un punto di vista meramente formale, la mutazione parrebbe anodina.
Ma basti paragonare le due strutturazioni per rendersi conto che così non è.
Il capitalismo manageriale produttivista contribuì all’affermazione del Welfare State, dunque ad una perequazione distributiva del prodotto interno lordo delle democrazie occidentali, incardinato sull’arricchimento della classe media (anche perché in qualche modo condizionato – sostiene il Gallino – dallo spauracchio collettivista al di là della Cortina di ferro).
Ciò fu possibile grazie al cosiddetto
compromesso fordista, ovverosia la realizzazione di prodotti sempre più concorrenziali a prezzi sempre più bassi, grazie ad un’organizzazione del lavoro sempre più efficiente. La qual innovazione implementò circoli virtuosi per il reddito e l’occupazione.
Figure-chiave del capitalismo produttivista era il manager altamente professionalizzato, esperto nei settori di competenza, ed orientato a reinvestire in innovazione e ricerca parecchia parte dei profitti aziendali. Per capire la portata di simili professionalità, basti confrontare un Enrico Mattei ad uno dei tanti managers assoldati da Callisto Tanzi.
Ma il circolo virtuoso scricchiolò allorché si dovette fronteggiare una congiuntura negativa mondiale (dalla seconda metà degli anni Settanta in poi) che produsse la drastica diminuzione dei tassi di profitto.
Tra le cause preminenti viene indicato […] l’esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche del modo di produzione fordista (pag. 98).
Ed ecco che allora, nelle aule delle Business School, in specie anglosassoni, venne creato pian piano l’antidoto: il pensiero neoliberale, che si basava su una radicale inversione della destinazione non solo dei profitti aziendali, ma anche dell’intera politica del management. Fra i nuovi “guru”, basti ricordare gli economisti Milton Friedman e Franco Modigliani.
Nacque così il nuovo credo ed il nuovo imperativo categorico: la teoria della massimizzazione di valore per l’azionista.
Per mettere in pratica la quale divenne necessario un processo che non è iperbole definire palingenetico, per le implicazioni radicali che addurrà. Si trattò infatti d’
intervenire al medesimo tempo su diversi aspetti del sistema produttivo, sulla cultura economica che ne legittima il funzionamento, e sulle modalità del governo dell’impresa (pag. 100).
Ogni fattore ed ogni attore di questa palingenesi e delle sue conseguenze planetarie meriterebbero un’analisi puntuale, che però esula dalla presente recensione.
Fortunatamente il professor Gallino, nel corso della sua esposizione, sintetizza “la posta in gioco”. Una di queste sintesi:
Pertanto fin dai secondi anni ’70 la principale forza propulsiva dell’economia mondiale è stato l’incessante tentativo delle imprese capitalistiche – sollecitato dai loro proprietari ed investitori – di riportare con differenti mezzi il tasso di profitto ai maggiori livelli di vent’anni prima. Tra codesti mezzi rientrano la riduzione del costo del lavoro; l’aumento dei prezzi rispetto alle retribuzioni, l’attacco ai sindacati condotto in molti paesi direttamente dallo stato; la delocalizzazione delle unità produttive in zone del mondo dove i salari sono minori [Corsivo mio: quanto l’evidenziato comparativo di minoranza sia eufemistico, parrà evidente quando l’autore analizzerà questo asserto introducendo ad esempio il concetto di “zone franche d’esportazione” nei cosiddetti PVS: Paesi in Via di Sviluppo, o Tigri Asiatiche, se preferite.]. Contemporaneamente è stata accresciuta sui lavoratori la pressione per attuare varie forme di razionalizzazione (pag. 99).

Dal Welfare al Workfare State.

Ecco come i “responsabili delle risorse umane” di mega-aziende, che di botto han fatto, in Francia come in Germania, un bel salto di qualità, hanno attuato questa sorta di rivoluzione copernicana nell’organizzazione del lavoro, tramite la predisposizione di disegni di legge, imperniati su concetti di tal fatta:

Il passaggio dal concetto di «politiche attive» del lavoro a quello di «politiche attivizzanti»: non del lavoro, bensì del [singolo] lavoratore. Tramite di esse il dovere di iniziativa viene trasferito dall’istituzione alla persona.

Lo sviluppo di «mercati di lavoro di transito» In tali mercati le persone vengono sollecitate a fluttuare senza remore tra diversi tipi di occupazione

Chi dichiara di non avere un’occupazione è sospettato […], per definizione, di NON AVER VOGLIA DI LAVORARE (stampatello mio). Potrà sgravarsi da tale sospetto solamente dando prova di «nuova ragionevolezza». Vi sembrano cose da pazzi? Andate allora un po’ a vedere cosa vi consigliano i solerti giovani “impiegati” (uso le virgolette perché non si sa con quale delle QUARANTOTTO tipologie contrattuali questi poveretti sono stati diciamo assunti…!) che vi sorridono al di là della postazione anomica che occupano, assieme ad un’altra decina di colleghi dislocati ai quattro angoli dello stanzone, delle mitiche Agenzie di lavoro temporaneo. La sostanza del suddetto consiglio consiste in ciò: accettare qualsiasi lavoro venga offerto […], anche se scarsamente retribuito, di bassa qualifica o di qualifica inferiore al lavoro svolto in precedenza, e lontano dall’abitazione. Di modo che la magra “retribuzione” spesso viene tutta impiegata a pagarsi l’affitto; e la famiglia d’origine si trova spesso a dover inviare il resto del necessario alla “risorsa umana” perché possa tirare a campare.

Come se non bastasse: Ove necessario, l’onere di provare che accettare un lavoro mal pagato, poco qualificato e lontano non è ragionevole ricade sulla persona cui viene offerto. Inoltre:

Se la persona viene giudicata non collaborativa può venire ESCLUSA DALLE LISTE DI OCCUPAZIONE che i centri propongono alle imprese (stampatello sempre mio. Pagg. 185-186 del testo)

… E questo è soltanto quel che succede ad uno dei tre pilastri su cui si regge il modo di produzione capitalista: il lavoro.
Cosa succede agli altri due – terra e capitale?
Un’emorragia parimenti tragica. Analizzata in tutti i suoi aspetti dal saggio del Gallino.
Solo un accenno, qui. Emorragia di capitali: il paradigma di creazione di valore per l’azionista, così come crea valori in borsa, con altrettanta facilità li vaporizza; di risorse naturali: vedasi lo sviluppo economico sfrenato e nullamente ecosostenibile della Cina. E si pensi altresì al mancato arrivo dell’inverno quest’anno, ed alla frequenza, esponenzialmente aumentata, di alluvioni, tzunami, periodi di siccità.
Quali i rimedi?
Da tempo le imprese vanno producendo quintali di documentazioni sul tema della cosiddetta RSI (Responsabilità Sociale dell’Impresa, appunto): una sorta di autoregolazione, su base volontaristica, della politica aziendale in maniera un po’ più sensibile rispetto ai costi sociali da essa ingenerati a catena.
Ma, proprio perché su base volontaristica, la massa di codificazioni poco meno che deontologiche non bastano.
La Francia, da sempre sensibile ai suoi Citoyens, pare indicare la strada, con l’emanazione della prima legge statale – significativamente intitolata Nouvelles régulations économiques, introdotta nel 2001 –, che codifica imperativamente alcuni parametri da citare da parte delle imprese nella redazione dei bilanci.
Ma il Gallino suggerisce di andare ancora più oltre: bisogna che al capitalismo manageriale azionario si contrappongano nuovi antagonisti sociali.
Ed è ciò che anche la scrivente calorosamente auspica.
Leggete quali…

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Luciano Gallino, professore emerito, già ordinario di Sociologia, presso l’Università di Torino.
Da tempo si occupa delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell’era della globalizzazione. Questo è il suo quarto saggio sull’argomento.
Luciano Gallino “L’impresa irresponsabile”, Edizioni Mondolibri s.pa., Milano, 2006, su licenza Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.
Anno di prima edizione: 2005, per i tipi di Einaudi.

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