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Figlio di Vetro – Giacomo Cacciatore

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Il curriculum letterario di Giacomo Cacciatore, nato a Reggio Calabria ma da sempre residente a Palermo, è di tutto rispetto, anche tenendo conto della sua relativamente giovane età. Solo di recente però, dopo avere fatto conoscere le sue capacità con racconti di genere apparsi in svariate antologie e su giornali, ha iniziato a proporsi al pubblico dei suoi lettori con qualcosa di più ampio respiro, presentando prima, nel 2005, “L’uomo di spalle” (Dario Flaccovio Editore) e ora, nel 2007, “Figlio di Vetro” pubblicato da Einaudi.
Ma se la prima opera è un noir con una forte vena di ironia e di grottesco, “Figlio di Vetro” tende ad un realismo più immediato e spiazzante. Certo, si parla ancora di un rapporto tra figlio e genitore (ma qui il protagonista è più piccolo, e il rapporto principale sviluppato è quello con il padre), l’ambientazione geografica-culturale non è così diversa e c’è uno strato di narrazione “fantastica” (che da in parte il tono di svolta al romanzo) che può essere paragonato con specifiche scene dell’altro romanzo. Ma le similitudini vanno ricercate ed evidenziate a forza, perché nel complesso l’architettura di questa sua seconda opera ha una originalità specifica e un target piuttosto diverso.
Questa è “una storia di mafia“, riporta la nota di copertina. Ma questa scritta, pur non essendo falsa, inganna. Perché pur parlando di mafiosi e di fatti criminali, la scelta dell’autore di fare due passi indietro con il punto di ripresa, prima scegliendo come focus un “piccolo” mafioso, poi ancora, facendo filtrare i fatti dagli occhi di suo figlio “piccolo”, fa si che non si sia in mezzo alla mafia nel senso classico-filmico del termine, dove cioè l’azione criminale viene studiata e applicata, ma si sia ancora di più “in mezzo” perché si capisce, grazie all’ottima capacità di Cacciatore, quanto ovunque si sia in mezzo. Quanto l’odore della mafia sia diffuso, tanto da riuscire ad impregnare gesti che, altrimenti, non sarebbero mafiosi – come il rapporto, nei dialoghi, di un bambino con il padre. Come semplici giri dei due in un negozio, o in una pasticceria.
La ragnatela delle amicizie, della famiglia, della sudditanza fisica e psicologica è qui proposta con un tono realistico e semplice che cattura subito per la sua logica immediata. Non è forse, quanto descritto, così apparentemente normale, se ci si cala per un istante – suspension of disbelief – nel circuito dei personaggi? E non si parla qui – in molti casi – di assassini – ma di persone comuni. Che solo preferiscono vivere meglio. E che sono disposte, per questo motivo, a fare favori e a comportarsi come si conviene. Da mafiosi nel senso terribile perché meno criminale del termine.
Ma Cacciatori non si ferma a questo. Come per volere sottolineare l’anormalità della situazione inietta nel protagonista adulto (nel padre del “Figlio di Vetro”) una struttura di relazioni duplici. Vincenzo Vetro è così contemporeamente “il Turco” e anche il “Vice-sovrintendente Vetro”, è il padre di Giovanni e (in un’altro “universo”) quello di Tanino e di “‘u nico“, e si muove, più o meno agevolmente, tra due famiglie mafiose diverse.
E duplice è anche la visione delle cose del piccolo Giovanni Vetro che da un lato vede le cose che riguardano il padre pur capendole solo in parte – almeno inizialmente, e dall’altro immagina le stesse cose proiettate, sovraimpresse, al mondo della televisione. Sentendosi come Starsky e Hutch, considerando se e altri alla stregua di Fonzie, interpretando l’infiltrazione mafiosa come la malattia che rende zombie nel film di Romero.
E questa doppia visione si incancrenisce verso metà del romanzo – quando il padre dovrà fare i conti con la propria posizione e il figlio perderà parte dell’innocenza del suo vedere le cose. Quando cioè la mafiosità vissuta da Vincenzo Vetro inizierà a scricchiolare – sospinta da cambiamenti sociali derivanti da arresti importanti – e tutto virerà di più sul piano personale rendendo più evidente la doppia famiglia (“umana”) di Vetro nell’evidente e progressivo ridimensionamento di quella “sociale”. Dando un ruolo maggiore alla madre di Giovanni, che vivrà la maggior parte del periodo storico descritto dal romanzo, anestetizzata come uno zombie, senza però mai esserlo del tutto. Essendo la donna che si vede e che non si deve sentire – contrapposta a quella che non si vede ma che indirettamente si sente nelle tante telefonate misteriose che arrivano a casa Vetro.
Un libro che si finisce in un lampo – tenendoti stretto senza necessità di molti colpi di scena, ma con la sola forza dei dialoghi e delle descrizioni. Che ha una prima parte (dell’innocenza) strepitosa nella sua scorrevolezza e una seconda (della comprensione) più articolata e complessa per gli aspetti psicologici. E che lascia, al gusto, un agrodolce perfetto. Su cui rimuginare a lungo.

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