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Venezia 2006

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I FILM DI VENEZIA 2006

Se facessimo parte di un paese in cui la cultura del sospetto non sussistesse, potremmo anche affermare che il trionfo di due film cinesi nelle sezioni ufficiali del Festival, Leone d’Oro per il miglior film a “Sanxia Haoren (Still Life)” di Jia Zhang-Ke e Premio Orizzonti a “Mabei Shang De Fating” di Liu Jie, sia un caso dettato dalle libere valutazioni di una giuria illuminata. Invece, rimangono forti dubbi che lo tsunami economico cinese investa fatalmente anche l’industria del cinema. Pur non togliendo nulla alla qualità di queste opere, che possono allinearsi fra quelle migliori proiettate quest’anno, come spesso accade qui a Venezia, il giudizio sia della stampa ufficiale, sia del pubblico viene disatteso, in una 63a Mostra del Cinema dove si sono assegnati premi discutibili o addirittura confezionati all’ultimo istante per accontentare un po’ tutti. Da vedere in questa ottica il Leone d’Argento Rivelazione ad Emanuele Crialese per l’opera “Nuovomondo”, bella pellicola che conferma, dopo l’ottima accoglienza a Cannes del suo film precedente “Respiro”, la solidità del giovane regista italiano. La storia ci racconta dell’emigrazione italiana dei primi del novecento verso gli Stati Uniti, una rilettura in cui si evidenziano non solamente aspetti drammatici, ma anche un’ingenua comicità popolare, insomma un film ben riuscito che avrebbe potuto aspirare anche al Leone d’Oro, dopo anni di produzioni Rai mandate al Festival di Venezia scarsamente riconosciute dalle giurie. I nomi che gli addetti ai lavori avrebbero voluto maggiormente premiati sono quelli di Alain Resnais con “Coeurs” (il titolo presentato in una prima fase di selezione era “Private Fears in Public Places”), che ha comunque ottenuto il Leone d’Argento per la migliore regia, e soprattutto “The Queen” di Stephen Frears premiato con l’Osella per la migliore sceneggiatura (Peter Morgan) e con la scontata Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Helen Mirren, premi di consolazione (come lo erano stati l’anno precendente con “Good Night, and Good Luck”), per quella che era ritenuta dai più la miglior pellicola in concorso. Grande soddisfazione, invece, da parte di tutti, per il Premio Speciale della Giuria al film “Daratt” di Mahamat-Saleh Haroun, che vede il ritorno del cinema africano in concorso al Festival dopo 19 anni. Per quanto mi riguarda, le concomitanze di date non mi hanno consentito per quest’anno la visione delle tre pellicole sopra citate, quindi non posso esprimere un giudizio definitivo, ma solo le sensazioni che ho raccolto in giro per il Lido. Stesso discorso vale per la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Ben Affleck nel film “Hollywoodland” di Allen Coulter, premio che ha sollevato le proteste dei più, alle quali, conoscendo l’attore, posso associarmi. Vi rimando quindi ad una visione in sala quando e se verranno proiettate. Ultimo commento sui premi vorrei riservarlo alla pellicola “L’intouchable” di Benoît Jacquot, la cui attrice protagonista Isild Le Besco ha ricevuto il Premio Marcello Mastroianni come attrice emergente, premio chiaramente politico per questo pessimo film girato in India, dove una giovane donna va alla ricerca del proprio padre mai conosciuto, appartenente alla casta indiana degli “intoccabili”.

Per l’altro film italiano in concorso “La Stella Che Non C’è” di Gianni Amelio, a parte l’ottima interpretazione di Sergio Castellitto, che avrebbe lui sì meritato il premio come miglior attore, devo dire che stavolta il regista calabrese non ha portato un lavoro particolarmente originale. La sua visione della Cina e dei problemi legati al suo eccezionale sviluppo economico, è stereotipata, il regista non dice nulla di più che ognuno di noi può immaginare o che ha sentito in qualunque Tg dossier, è la visione di un occidentale che vive in realtà al di fuori del problema. La cosa è ulteriormente evidenziata proprio visionando le due pellicole vincitrici dei rispettivi concorsi ufficiali. “Sanxia Haoren (Still Life)” ci racconta le situazioni familiari di due personaggi, un padre ed una moglie, che si muovono nel contesto dell’antico villaggio di Fengjie, sommerso dall’acqua per la costruzione della diga delle Tre Gole, mentre “Mabei Shang De Fating (Courthouse on the Horseback)”, ci da uno spaccato della vita nei villaggi di montagna dove sussistono ancora grandi differenze etniche, culturali e religiose molto lontane dalla visione, a cui siamo abituati, delle scintillanti megalopoli moderne, icone del boom economico cinese. Due pellicole che pongono un punto di vista differente rispetto alla scontata immagine di modernizzazione della Cina. In generale, la selezione di quest’anno è stata come al solito ricca di cinematografie dagli stili estremamente differenti, e la ricchezza del lavoro che il direttore Marco Müller sta portando avanti da tre anni è dovuto proprio a questo. Diretta conseguenza è stato il Leone d’Oro alla carriera a David Lynch, che nel corso degli anni ha adottato linguaggi cinematografici sempre più sperimentali, giungendo proprio qui a Venezia con una pellicola, “Inland Empire”, di grande suggestione ma di difficile comprensione, girata interamente in digitale. Diventa inevitabile che ognuno di noi, differentemente sensibile alle proprie idee cinematografiche, possa apprezzare più o meno questa diversità di proposte. Personalmente apprezzo considerevolmente l’inserimento dell’animazione anche a livello di concorso ufficiale, quest’anno secondo me ottimamente rappresentata da uno degli autori riconosciuti in questo genere, Satoshi Kon, la cui pellicola “Paprika” credo sia un ottimo film di genere, grandi disegni, grande animazione, personaggi di spessore, trama piuttosto complessa giocata a livello psicologico-onirico, in cui la barriera fra realtà e sogno diventa molto flebile. Discorso differente si può fare per l’altro grande evento di animazione fuori concorso presentato, “Gedo Senki” di Goro Miyazaki (il figlio del mitico Maestro Hayao Miyazaki), prodotto dallo studio Ghibli, lavoro molto atteso ma anche molto deludente (al quale, per la verità, il padre si era dissociato in fase di lavorazione), in cui i tratti, le animazioni, gli sfondi sono insufficienti agli standard odierni e ancor di più se provengono dalla più famosa casa di produzione giapponese a livello mondiale. La trama, ispirata ai romanzi del mondo di EarthSea, di Ursula K. LeGuin’s, genere fantasy, risulta essere confusionaria, ed anche i personaggi sono molto banali. La sensazione di trovarsi di fronte ad un lavoro confezionato in fretta, puntando prevalentemente alla pubblicità data dal nome Ghibli-Miyazaki, è evidente. Il Festival di Venezia ha però dimostrato come l’animazione sia ancora un genere di nicchia e non venga considerato parificato alle tradizionali cinematografie: se da un lato c’è la grande platea di appassionati come testimoniano le sale esaurite per le proiezioni per il pubblico, dagli addetti ai lavori è ancora poco considerato e compreso, visto che le proiezioni per la stampa e gli accreditati erano pressoché deserte. Per questo genere si può comunque fare un discorso a parte. Anch’io sono convinto, anche se appassionato, che è difficile giudicare con gli stessi criteri la cinematografia tradizionale e l’animazione, che andrebbe sì proposta, ma inserita in un concorso parallelo. Differente è il discorso invece di inserire in un concorso ufficiale, forme espressive e cinematografiche sperimentali. Esempio lampante è stato quest’anno “Quei loro incontri” dei registi Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, coproduzione italo-francese, premiato con il Leone Speciale per l’innovazione del linguaggio cinematografico, registi cui il festival aveva nel 1975 dedicato una retrospettiva. La scelta di portare un genere così particolare in concorso (il film è strutturato in 5 capitoli che “recitano” brani ispirati ai “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese), è coraggiosa, ma sono altrettanto condivisibile le critiche di chi ritiene il cinema un mezzo popolare, che può comunicare messaggi, sensazioni, ed immagini originali senza per questo diventare fortemente intellettuale e di difficile comprensione, o addirittura incomprensibile, come nel caso di “Inland Empire” di David Lynch, che risulta essere francamente una presa in giro nei confronti dello spettatore. Non posso condividere, ad esempio, le affermazioni dei suoi fan più accaniti che sostengono che Lynch non va compreso ma percepito. Sempre convincente invece l’ultima fatica dell’altro Maestro presente al Lido, il novantottenne Manoel de Oliveira, che con “Belle Toujours” fa un omaggio a Luis Buñuel, in un sequel del suo film “Bella di Giorno” Leone d’Oro a Venezia nel 1967. Infine, diversi film sarebbero da segnalare, ma fra tutti ne consiglio all’uscita due in particolare: “Nue propriété” di Joachim Lafosse, film belga, con una sempre magnifica Isabelle Huppert, storia di una famiglia allo sfascio attorno alla proprietà di una casa, e “A Guide to Recognizing Your Saints” di Dito Montiel, vincitore del Premio Settimana Internazionale della Critica, bel film autobiografico che racconta l’infanzia del protagonista nel quartiere del Queens nella New York degli anni 80′.

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