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Caryl Chessman: Quel ragazzo è un Killer!

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The Kid was a Killer, così suona il titolo originale di un romanzo scritto nel 1960 da Caryl Chessman e tradotto in italiano solo quest’anno. Un romanzo che passati gli “anta” rimane assolutamente contemporaneo perché tratta i Grandi temi dell’esistenza sia da un punto di vista interiore che sociale con una maturità sorprendente che prende in considerazione un punto di vista psicologico (tramite il personaggio del dott. Layton) e un altro umanistico (tramite quella che in parte è la voce narrante della storia: il giornalista di box Charley Evans).

Il libro si delinea come una vera e propria tesi romanzata; la domanda dalla quale scaturisce il tutto è: «Cosa rende una persona un individuo violento». L’autore infatti afferma nel retro copertina: «La mia intenzione era quella di prendere in esame la violenza – il suo significato, le sue radici psicologiche, le sue implicazioni sociali – in termini narrativi. […] la forza e la potenza del racconto derivano proprio dalla sua brutalità, dalla scelta di non smussare gli angoli.»

Queste parole però rendono solo in parte quello che è il romanzo: un vero resoconto di una vita in tutta la sua tragicità, in cui i momenti di serenità sono così pochi e così intensi, veramente sentiti che non possono far altro che sorprendere il lettore con tutta la loro (per niente patetica) tenerezza e donano un soffio, un respiro vitale di speranza. Speranza che è poi il messaggio ultimo dell’esistenza, che in questo libro si identifica in carne ed ossa nelle donne e soprattutto con la fine del romanzo in un bambino, un ometto figlio di un padre che dopo la morte è diventato un mito e finalmente ha avuto la sua rivincita nei confronti di un mondo e soprattutto di una giustizia che l’ha calpestato fin da bambino.

La giustizia è uno dei temi fondamentali del romanzo, si delineano perciò: «situazioni in cui comportarsi in modo giusto sembra in contrasto con l’idea di fare giustizia». L’autore del resto è un ex carcerato, che però a differenza di scrittori come Massimo Carlotto, non ha mai avuto la grazia ed è morto di pena capitale proprio nel 1960 dopo aver dichiarato per più di dodici anni la sua innocenza: un caso che non passo emotivamente inosservato negli Stati Uniti. È dunque questo l’ultimo dei libri che ha scritto, tutti partecipi di un imput autobiografico.

Ma la cosa sorprendente del romanzo, a parte la coraggiosa scelta dei contenuti e la grande sapienza nel svolgerli, è la struttura narrativa e lo stile mutevole. Inizialmente, per le prime cinquanta pagine sembra di essere di fronte a un romanzo alla Fight Club: il giornalista Evans ci introduce nel mondo della box, negli istinti primordiali di violenza, e nel mondo del giornale in cui scrive: ci presenta il suo capo che sembra essere proprio quello di Clar Kent: iroso e miscredente; tutto trattato con una scrittura tagliente dal sapore verbale e americaneggiante…ma poi quando finalmente il vero protagonista del romanzo viene fermato da Evans, lì inizia un altro racconto (metanarrazione dunque) dai toni sorprendentemente intimistici: Buddy, il ragazzo protagonista ci racconta la sua vita da bambino fino a quel momento. E così si delineano situazioni di conflitto con un padre che ricorda quelli delineati da Kafka o Dostojeski e si delinea anche un flusso di pensieri evidenziato dal corsivo per cui noi seguiamo tutto quello che avviene nella testa del «ragazzo», fino a seguirlo nella sua discussione col Diavolo. E questa è una terza fase del romanzo, una fase in cui subentra il fantastico o meglio il disumano, che pian pian corroderà il ragazzo fino a: «sogghignare come la Morte stessa» dopo che alla fine di una serie di lutti perde l’ultima persona che l’aveva amato: sua moglie. Ecco che più e più volte compaiono le descrizioni della «maschera» del protagonista che ricordano un po’ le descrizioni dei volti nei drammi di O’Neill, altro scrittore americano impegnato a delineare il dramma della vita in termini di fatalità come del resto avviene anche in questo libro spesso troviamo scritto del: «libro del Fato». Un fato che però per Chessman è una bilancia calcolatrice che sa andare al di là della morte. E così si conclude il romanzo al di là della vita del protagonista, in un resoconto che: «Era la storia di una vita difficile, selvaggia, brutale.» e della quale l’autore ci fa sentire tutta la pesantezza. La pesantezza di quelle scelte, che a volte diventano necessarie, di eclissarsi nell’odio, di continuare a vivere per dire basta non mi calpesterete più perché io prima vi avrò già dato un pugno e non mi avrete mai perché la morte io l’ho già sfidata.

In conclusione l’autore sembra proprio far parte di quella cerchia di scrittori americani che hanno saputo sorprendere l’Europa per la loro capacità di raccontare con crudezza reale, passando attraverso la via del pensiero ma senza mai scadere nella speculazione di quest’ultimo, regalandoci spaccati di vita partecipi della loro sensibilità americana che attraverso la loro penna non si può ridurre alla retorica: americano = superficiale.

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