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Stanza 411 – Simona Vinci

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Stanza 411 di Simona Vinci inizia con una breve prefazione in cui l’autrice ci parla in veste di  soggetto e coscienza del testo…leggiamo le ‘avvertenze’: “Questo libro ti dispiacerà da subito. Dall’inizio, provocherà in te irritazione. Ti disturberà dovrai leggerlo fino in fondo lo stesso. Perché dice la verità che appartiene a me, ma in un certo senso ogni verità singola appartiene a chiunque, una volta pronunciata.

Ti irriterà, ma questo non è grave: che male potrà mai farti la lettura di una lettera?”

È una scrittura scarnificata, a tratti fenomenologica, e un verbale delle azioni dell’io-donna-scrittrice-protagonista e delle sue constatazioni e paure (parola tra l’altro molto ricorrente nel testo) ed è a volte un inventario di oggetti che compongono di volta in volta la stessa scenografia, una camera d’albergo, sempre la stessa in cui si trovano due persone, due corpi, i due fantasmi di questa storia, in una ripetizione costante e differente dello spazio esterno ed interno alla protagonista: a tratti una ripetizione freudiana. ‘Usami’ è una di quelle parole ricorrenti, che richiama subito alla mente un amore-consumo, un ‘amore liquido’ come lo chiamerebbe Bauman, un amore al quale l’io di lei si vorrebbe abbandonare ma anche disfare in un’inquietudine costante che a volte porta la protagonista a contraddirsi nel giro di dieci righe.

C’è una volontà di cercare di definire le ‘cose’, l’amore, il sesso, come per avere tutto sotto controllo, razionalizzato, che però non ci porta a nessuna definizione se non forse alla constatazione che si è di fronte ad una storia d’amore contemporanea, a volte retorica: “Una storia d’amore che è la storia di tutte le storie d’amore.” La relazione tra i due protagonista è fatta di parole comuni, parole già in bocca a tanta gente, parole e discorsi pre-confezzionati; relazione in cui non si riesce a vivere l’unicità dell’incontro.

La narrazione è spesso insediata da considerazioni della scrittrice-protagonista su testi e storie letterarie, una sequenza di un film, e spesso ci parla del Pantheon. Descrizioni che arrivano all’improvviso, che spezzano la narrazione; dopo che l’autrice nella pagina precedente ci ha fatto confidenza di uno di quei discorsi, quei pensieri che l’accompagnano prima di addormentarsi, nella pagina successiva inizia con: “Il Pantheon è il monumento meglio conservato della Roma antica…” come se la narrazione fosse un collage di brani vari scritti in momenti diversi su pezzi di carta diversi, “appunti di guerra. Schemi di battaglia scarabocchiati su un pezzo di carta” che l’autrice ha messo insieme creando un’opera, o una ‘soap-opera intramezzata da siparietti didattici ‘.

Il corpo, un elemento centrale nel libro e soggetto sempre più a indagini letterarie, ci è qui presentato come: “un corpo che per essere a posto necessita di essere plastificato e imbellettato come un cadavere della morgue, […] cercare di essere disinvolta, di non sembrare troppo nervosa e neppure troppo sicura. Sono una donna, perdonami. […] il mio corpo si trasforma, è plastilina che si modella giorno dopo giorno […] Sono una macchina adatta a rigovernare una casa, a indossare tacchi a spillo e minigonna. Sono perfetta come una lavastoviglie, igienica come un detersivo biodegradabile…usami.” Un corpo, come afferma Bachtin: “perfettamente dato, formato, rigorosamente delimitato”, ma non solo, anche di più, trasformista, multiuso, pervaso dal fantasma tecno-teratologico della letteratura post-moderna; un corpo sezionato, fino a un corpo macchina da guerra: “solo uomini “macchine potenti e inclini a essere manipolate secondo le mie esigenze. E dovevano essere vuoti.” ma pur sempre attore pronto a smentire quello che si potrebbe credere di lui.   

L’impossibilità di comunicare le passioni e i sentimenti è un altro tema centrale della narrazione, un’impossibilità spesso accompagnata dalla paura di affrontare un rapporto con una persona per poi non trovarsi ‘intrappolati’, la paura di non poter riuscire a portare avanti una relazione al di là del sesso, della carne,  e non poter però far più a meno di quella carne e continuare inesorabilmente a cercarla. E forse per questo il romanzo alla fine si chiude con: “Ho amato un uomo che non esiste. L’altro che tutti aspettiamo da sempre e che non può arrivare.”

 

  Simona Vinci, un’autrice che con “Dei bambini non si sa niente”, il suo primo libro pubblicato da Einaudi stile libero nel 1997, ha saputo sconvolgermi con una storia “cruda”, di quelle che appunto rimangono sullo stomaco; una storia che narra del percorso di scoperta sessuale all’interno di un gruppo di bambini e del Male che si insinua nei loro giochi erotico-sessuali. Un romanzo che a tratti ricorda molto la poetica sadiana, oltre che per il contenuto, anche nella forma: “il romanzo parte in modo lento, poi c’e` una brusca accelerata e si passa a pagine intense, forti, in cui tutto e` descritto nei minimi particolari ed è come se le scene si svolgessero in presa diretta, davanti ai nostri occhi”, così si legge in una recensione di Brandolini e così scrive Deleuze riguardo la scrittura di Sade: “Con queste due modalità, per mezzo della descrizione, e della ripetizione accelerante e condensante, la funzione dimostrativa raggiunge il suo effetto più alto.”

Il gioco di contrasto tra il mondo di un’infanzia spensierata e quello della pornografia sadica e pedofila che con tutta la sua negatività si insinua nella relazione dei bambini, crea una forte tensione a livello emotivo…una tensione che difficilmente troviamo nel  suo ultimo libro: “Stanza 411”.

C’è comunque da tenere in considerazione che in quest’ultimo libro la scrittrice si è discostata particolarmente da un modo suo di scrivere che la caratterizzava per una prosa semplice, pulita e colorata di descrittivismo, un intreccio lineare senza ostacoli per la narrazione (se non per Come prima delle madri, in cui però anche se c’era una struttura narrativa complessa di flash-back, l’intreccio rimaneva pulito) e il contenuto che spesso aveva a che fare con l’infanzia o l’adolescenza; mentre nel suo ultimo libro ha sperimentato una prosa dalle frasi  brevi e la sintassi rarefatta e il collage tra capitoli sulla storia d’amore e altri citazionistici rendono il libro, come dice la scrittrice, irritante…ma si potrebbe anche leggerlo in chiave comica…dipende dai punti di vista.

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