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Brexit e poi? Il futuro incerto dell’Unione Europea

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«Dimostreremo agli altri paesi che la vita fuori dall’UE è perfettamente possibile»
(Tom Van Grieken, leader del partito belga Vlaams Belang)
 
Il prossimo 23 giugno il Regno Unito è chiamato ad uno storico referendum per decidere se continuare l’avventura o uscire da quell’Unione Europea in cui non ha mai pienamente creduto.
Il fenomeno Brexit (l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’UE) è guardato con attenzione da molti: alcuni ne leggono le drammatiche conseguenze per il progetto continentale e l’economia globale, altri vi cercano favorevoli consensi per future scelte nazionalistiche.
Certamente, a prescindere dal risultato di Londra, l’Europa non sarà più la stessa e noi europei avremo un nuovo e faticoso lavoro di ricostruzione da portare avanti.
 
Euroscetticismo diffuso
In vista della consultazione referendaria di giugno con la quale i cittadini britannici dovranno pronunciarsi per la permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea, pare che i più convinti alleati del sì, oltre al primo ministro David Cameron, siano gli Stati Uniti d’America, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Banca Centrale Europea e la stessa Banca di Inghilterra. Dietro, in ordine sparso, vengono la Commissione Europea, Germania, Francia, Italia, Spagna e Portogallo, pur con qualche distinguo all’interno delle proprie compagini politiche da parte di partiti euroscettici.
Nel vecchio continente, a partire dalla crisi del 2007, si respira una pesante aria anti-europeista e l’uscita del Regno Unito rappresenterebbe il primo e decisivo passo per l’inizio dello sgretolamento delle istituzioni dell’UE.
Come non mai, in questo momento il fronte dello scetticismo è fortemente bipartisan e corre su tutto l’arco ideologico.
In Francia, Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra francese Front National, che secondo alcuni sondaggi potrebbe arrivare all’Eliseo nel 2017, sta utilizzando l’argomento Brexit per esacerbare le sue critiche all’Europa, richiedere una rinegoziazione dei termini di adesione della Francia e minacciare un analogo referendum per una eventuale Frexit (uscita della Francia dall’UE).
In Italia, paese tradizionalmente filoeuropeo, negli ultimi anni si è registrato l’aumento del malessere e il disamoramento verso il progetto a cui tanto aveva contribuito Alcide De Gasperi: alle ultime elezioni del Parlamento Europeo, ha partecipato solo il 57,22% degli aventi diritto e, secondo un’indagine dell’Istituto Ipsos[1], circa il 40% degli italiani sarebbe a favore di una Itexit (uscita dell’Italia dall’UE).
Per non parlare, poi, di due formazioni populiste e tradizionalmente anti-Bruxelles quali il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord che, tra i loro punti fermi, continuano a sostenere il fermo no all’Europa.
In Austria, scongiurata la possibilità di avere un presidente di estrema destra, il suo partito, il Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ), continua a raccogliere molti consensi ed a proporre una posizione molto rigida verso la permanenza di Vienna all’interno dell’euroclub.
Sul versante tedesco, invece, non si arriva ad una esplicita richiesta di Gerxit (uscita della Germania dall’UE) perché tutti i partiti politici sono consapevoli del reciproco valore che rappresentano Berlino e Bruxelles ma sempre più spesso si levano voci per la richiesta di maggiori riforme delle istituzioni e di una ridefinizione del peso dei partner.
 
Eurotiepidismo interessato
Nell’Europa centro-orientale, gli atteggiamenti verso l’appuntamento inglese sono più distaccati: nonostante il calo di entusiasmo verso l’Unione, che si è palesato con le percentuali più basse di partecipazione al rinnovo del Parlamento di Strasburgo nel 2014[2], questi paesi, che sono gli ultimi in ordine di tempo ad essere entrati, sono consapevoli dei vantaggi in termini economici che ricevono da questo “circolo esclusivo”.
Al contempo, alcuni governi hanno approfittato del momento per avanzare nuove pretese dinanzi alle istituzioni europee. Tra questi, il Gruppo di Visegrád[3] chiede di vedersi riconoscere maggiori fondi strutturali e, ultimamente, speciali aiuti per contrastare l’emergenza profughi provenienti dalla Siria.
Da una parte, Ungheria e Polonia considerano Londra una indispensabile alleata nelle proprie rivendicazioni di fronte alla Commissione; dall’altra, Bulgaria e Romania pensano di richiedere un “risarcimento” in caso di uscita del Regno Unito per il danno che ciò causerebbe all’UE.
In Belgio, invece, forse per la prossimità con le istituzioni, l’atteggiamento è fortemente a favore della vittoria dei no al referendum d’oltremanica. Tra i partiti locali, tuttavia, vi è il movimento separatista Vlaams Belang (Interesse Fiammingo) che promuove l’exit incondizionato. 
Nei paesi del Nord Europa, prevalgono le posizioni per la permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione sia da parte dei governi che delle forze politiche, seppure la loro voce risulti spesso affievolita nel frastuono generale. Anche qui però, seppur per ragioni diverse, si registrano posizioni pro-Brexit come quella del Vänsterpartiet (Partito della Sinistra) in Svezia e dell’Alleanza Rosso-Verde in Danimarca: per loro l’Unione Europea ha instaurato un sistema che promuove solo gli interessi del sistema capitalistico e finanziario contro i diritti fondamentali dei cittadini (salute, partecipazione democratica, tutela dell’ambiente), e sono per una radicale riforma dell’impianto europeo o per una sua dissoluzione.
 
Scenari post-Brexit
L’Economist[4] ha inserito l’uscita del Regno Unito dall’UE nella top 5 dei possibili scenari catastrofici per l’economia mondiale anche se le previsioni sono frutto di mere congetture e non hanno vere basi scientifiche.
Per uno studio condotto dalla fondazione Bertelsmann Stiftung[5] con l’istituto di ricerca tedesco Ifo[6] di Monaco, il costo della Brexit per il Regno Unito potrebbe essere di oltre 300 miliardi di euro con una contrazione del PIL britannico del 14% nell’arco di 12 anni.
Sogno o incubo, il risparmio degli apporti di Londra al bilancio UE non troverebbe contropartita nelle ingenti perdite dell’economia nazionale in molti settori chiave: quello finanziario che potrebbe avere una flessione del 5%, aggravata qualora gli operatori che operano da Londra decidessero di trasferirsi, magari a Francoforte; il chimico con una perdita di circa il 10%; l’automotive e la meccanica, ormai fortemente legate alle altre economie continentali, con danni difficilmente calcolabili.
È ovvio che anche gli altri Stati membri dell’UE risentirebbero dell’uscita della Gran Bretagna, in maniera diretta per una diminuzione nell’interscambio bilaterale intraunione, in maniera indiretta per l’aumento degli apporti che ogni governo dovrebbe riconoscere al budget europeo. Berlino, ad esempio, dovrebbe aumentare i suoi trasferimenti di almeno 2,5 miliardi di euro.
Tuttavia, dobbiamo specificare che la peggior apocalissi che si possa immaginare sarà realtà non prima dei due anni dalla celebrazione del referendum inglese. Questo perché, in conformità a quanto previsto dall’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea[7], perché uno stato membro possa recedere dai vincoli derivanti dai Trattati, dopo aver notificato la propria intenzione al Consiglio Europeo, questo deve presentare una proposta di accordo contenente le concrete modalità del recesso e, solo dopo la conclusione di detto accordo, i trattati cesseranno di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data stabilita o comunque due anni dopo la notifica.
Diverso argomento è quello per cui l’uscita del Regno Unito comporterebbe sicuramente l’apertura di una fase di rinegoziazione degli accordi di associazione di tutti i paesi membri con la creazione di un sistema multi-bilaterale molto complesso al limite dell’ingovernabile.
I costi economici, politici e sociali di un simile “government disorder” non sono oggi valutabili e ritengo sia impossibile avere una loro stima attendibile.
La verità è che, a prescindere dal risultato delle urne, il vertice dei capi di stato e di governo dell’Unione di fine giugno dovrà seriamente metter mano alla definizione di nuove fondamenta della comune casa europea.
E da qui ridisegnare un nuovo progetto europeo!
 

[1] Cfr. http://www.ipsos.it.
[2] Slovacchia, 13,1%; Repubblica Ceca, 18,2%; Slovenia, 21%; Polonia, 23,8%; Croazia, 25,2%; Ungheria, 28,9%; Romania, 32,2%; Bulgaria 35,5%.
[3] Il Gruppo di Visegrád è un’alleanza di quattro paesi, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, costituitasi nel 1991 per promuovere le relazioni con le Comunità Europee. Quando poi, nel 2004, tutti i suoi membri aderirono all’UE, il Gruppo si mantenne quale momento di confronto e promozione sub-regionale.  
[4] Cfr. http://www.economist.com/Brexit.
[5] Cfr. https://www.bertelsmann-stiftung.de.
[6] Cfr. https://www.cesifo-group.de.
[7] Anche conosciuto come “Clausola di recesso”. Art. 50, «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

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