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La metà del letto – Matteo Bianchi

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Barbera, 2015
 
L’unica citazione nella nuova raccolta di poesie di Matteo Bianchi, La metà del letto (Barbera, 2015), insonorizzando gli svariati echi indiretti, precipita sul foglio da Romeo and Juliet, il capolavoro postmoderno dei Dire Straits. Nell’unicum romantico composto dalla rock band britannica, il giovane Marc Knopfler nei panni di un Romeo fatalista ma per niente tragico, scriveva alla sua lei perduta:  «There’s a place for us, you know the movie song. / When you gonna realize it was just that the time was wrong, Juliet? – C’è un posto per noi, conosci la colonna sonora. / Quando realizzerai che era solo il momento a essere sbagliato, Giulietta?»Il fallimento dell’incontro tra i due innamorati, tra due ragazzi qualunque che a detta di Knopfler avrebbero meritato di essere graziati dal corso del tempo, dipese dal momento sbagliato e non dalle loro (naturali) intenzioni, dallo stesso trasporto che pesa ancora sul lirismo di Bianchi, coniugato al presente.
I testi dedicati alla riflessione sulla poesia sono quelli più convincenti, tanto che in loro favore si è pronunciato anche Valerio Magrelli: «Ho apprezzato in particolare Vi porterei tutte con me, con la bella definizione di “opposta resistenza / al mio cambiamento”. Non da meno sono i versi di Sul filo della colpa, o Corpus Domini», entrambe attuali e focalizzate su fatti di cronaca che si sono insabbiati, tanto sotto la nostra società quanto sotto la pelle di chi ne raccoglie il lascito scrivendone, così i versi in quarta di copertina, per un instancabile Giulio Cesare. La lirica Sul filo della colpa fa i conti con i detriti lasciati dal passato, dalle relazioni interpersonali consumate e finite, facendo il verso al “fil di lama” di Montale e sostituendo a una “felicità raggiunta” una serenità raggiungibile solo insieme agli altri: «Mi turba da sempre chiudere / le divisioni / con un quoziente in decimali, / le cifre in avanzo / dopo la virgola». Corpus Domini, invece, racconta tramite stati d’animo altrui uno scandalo che colpì un convento ferrarese negli anni ’70, quando a seguito del rifacimento delle tubature nel cortile interno, furono rinvenuti resti di aborti clandestini. E il silenzio si misura nella distanza tra i colori caldi della terra battuta in superficie e quelli gelidi del sottosuolo, un silenzio buio e alienante: «Intimi come non mai / i miei demoni ed io», distico in cui il dubbio divino è concesso solo alla voce. Infine Giulio Cesare è il ritratto in prima persona di un uomo che è costretto a tollerare il cinismo e un certo “faccendarismo” del do ut des politico, mentre preferirebbe un rapporto umano spontaneo, almeno con il figliastro Bruto, che lo osserva camminare pallido avanti e indietro, senza darsi pace. Non a caso, già nella sua raccolta d’esordio, Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011), Bianchi cantava: «Non c’è sollievo / a questa nostra fine, / Silvia, // entrambi saremo / almeno tutt’uno / con i nostri / disincantati / secondi fini», riconoscente al Leopardi in aria nichilista, come sostenne Mario Specchio nella fiduciosa postfazione. 
Il tentativo di queste pagine, sebbene implicitamente ego-riferito, è quello di immedesimarsi in toto, per poi farsi da parte e trasportare di fronte al lettore i vissuti più disparati. Per non «arrendersi al lieto fine», aggiungerebbe, ma per accettare gli accidenti, gli umori del caso: «quando il nostro inizio è coinciso / con la mia fine». 
 
Concludiamo fornendo un assaggio delle liriche, per capire meglio il senso di una recensione e per consentire al comune lettore di farsi un’idea del lavoro. Molte poesie non hanno titolo, tutte sono caratterizzate da brevità e intensità, grande ricerca del linguaggio e cura per la parola, come dovrebbe essere sempre quando ci troviamo di fronte alla vera poesia.
 
I
 
La sigaretta si consuma
tra le dita: ridotto
a un niente
sono io dalla passione.
 
Per prima ti ringrazio
del seguito, della ferita:
noi siamo nel dolore
liberi davvero.
 
Un mozzicone si abbandona
di spalle, si fida della neve
 
nella salvezza che congela.
 
II
 
Ieri ho letto poesia
sino a tarda notte,
mentre tu facevi la vita
e fremente ad essa ti univi.
Lo scarto tra noi e l’esistenza,
mio tradimento che contempla
e non s’incarna:
senso di colpa di chi riesce,
di chi vince la mano col piacere.
Corrotti di natura,
il timore è dannarsi insieme
in paradiso.
 
III
 
In capo al nostro corrimano
ti ho chiesto scusa:
l’amore risolto invecchia,
quello insoluto eterna.
 
 
IV
 
Cosa ho fatto di sbagliato
per meritare questo?
Io non sono dispensato,
sono rimasto per le tue parole,
per spargerle nel grande fiume,
il Po che ci ha divisi.
Ceneri alla foce comune.
Le troppe rose sono il paradosso,
un frutto dal sapore sconosciuto,
il tuo nome adesso
di seconda fioritura, in maggio,
primavera della tua sepoltura.
La vita ti ha chiamato
per ciò che sei stato.
Per chi mi aveva dato
un amore terreno
avevo un pianto disarmato
in cambio, che l’avrebbe seguito.
 
V
 
Sono nati i narcisi ovunque:
sugli argini del fiume consumati,
nelle cune verdi dei rifiuti,
intorno ai binari dismessi.
Non hanno aspettative
e se li cogli, non si tengono:
un vaso non vale il rimpiazzo.
Sono liberi,
ma non lo sanno.
Poesia è un soffio sui narcisi:
il mio legno diviene anima
e il mio sasso ragione.
Noi siamo
solo se accettiamo di non essere.
 

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