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Disintegration (The Cure)

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THE CURE – DISINTEGRATION

 

 

Essenziale partire da una domanda: cosa ha rappresentato Robert Smith, ormai leggendario leader dei Cure, per chi ha amato la sua musica e i suoi versi? Consolazione dalla malinconia, espressione della fragilità dell’anima, rappresentazione della consapevolezza e della coscienza della necessità dell’estensione del dominio della lotta contro la depressione.

In altre parole: Robert Smith è stato quel che avrebbe potuto e dovuto essere Ian Curtis, se non si fosse arreso al dolore. Il nostro bisogno di consolazione s’è sposato con la necessità d’avvertire e di riconoscere che il deserto e il buio non erano sentimenti individuali – e che la musica e la poesia d’un grande artista e della sua band potevano, scolpendo il male, cristallizzarlo ed esorcizzarlo. Cura del male: sublimazione.

 

Dal 1979 ad oggi, dodici album e una serie di dischi live – più indovinato dei quali, onestamente, mi sembra essere Paris. Brit Dark Rock, figlio della lezione dei mai adeguatamente idolatrati Joy Division, affratellato a Siouxsie and the Banshees, ai Cocteau Twins, a quei Depeche Mode capaci di precipitare, con coraggio, nelle tenebre – mi sembra, del resto, che i Depeche costituiscano, nel pop elettronico, quel che i Cure sono stati nel dark, almeno tendenzialmente.

 

Disintegration. I Cure, giunti al decimo anno d’attività ufficiale, sono reduci dall’esperienza del doppio Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987), album che ha visto – per la prima volta – la band intera supportare Robert Smith nella fase creativa. Con esiti atipici, eclettici e fascinosi. Quel che avverrà negli anni successivi – la memoria stenta a riconoscere il genio del Principe Paranoia nel mediocre e grottesco Wild Moon Swings e nel ruvido e ripetitivo The Cure – ad oggi, è trascurabile: con le splendide eccezioni di Wish (1992) e Bloodflowers (2000). La suggestione è quindi facilmente spiegata: la percezione del vecchio fan è che Robert Smith e compagni abbiano conosciuto il termine della loro notte in due album: appunto, Disintegration e Wish.

Proviamo a capirne le ragioni.

 

Primavera 1989. La band originaria della cittadina di Crawley, nel Sussex, si presenta con questa formazione: Robert Smith (voice, guitar, keyboards), Simon Gallup (bass and keyboards), Boris Williams (drums), Porl Thompson (guitars), l’ex Psychedelic Furs Roger O’Donnell (keyboards), Laurence Tolhurst (other instrument).

Entriamo nella disintegrazione. Incipit: Plainsong. Tastiere dominanti, ouverture sognante e barocca, batteria a dare respiro ed equilibrio, quindi chitarre a determinare sensi e oniriche atmosfere: in armonia con quel che possiamo riconoscere come uno degli stilemi della band, il brano ha un’apertura piuttosto distesa; è una sorta di lunga introduzione al canto di Robert Smith. Che accompagna l’ascoltatore fino alla fonte dello spirito del disco: «“I think it’s dark and it looks like rain” you said / “and the wind is blowing like it’s the end of the world” you said / “and it’s so cold it’s like the cold if you were dead” and then you smiled for a second (…) sometimes you make me feel like I’m / living at the edge of the world like I’m living at the edge / of the world “it’s just the way I smile” you said»

 

Stiamo vivendo at the edge of the world. Segue uno dei brani ormai classici, nel repertorio dei Cure: Pictures of You – senza dubbio, musicalmente meno depressa e più rassicurante, a dispetto d’un testo che non sembra lasciar scampo alla consapevolezza della fine d’una speranza, scivolando nell’amarezza dell’epilogo d’un amore: “Remembering you fallen into my arms / crying for the death of your heart / you were stone / white so delicate lost in the cold / you were always so lost in the dark / remembering you / How you used to be / slow drowned you were angels so much more than everything / oh hold for the last time then slip away quietly / open my eyes but I never see anything / if only I had thought of the right words / I could have hold on to your heart / if only I’d thought of the right words / I wouldn’t be breaking apart / all my pictures of you“. Non è ancora il momento dell’acme romantica e nostalgica del disco. È il preludio a Closedown: non è difficile riconoscere batteria e intelligenza joydivisioniane, in questo pezzo che va connotandosi come un’ossessiva richiesta d’amore e di emozione nuova; Robert Smith piega e a fatica distende i suoi sentimenti, cantando “the empty hours of greed and uselessly always“, e il “need to feel again the real belief of something more than mockery if only i could / fill my heart with love“. Questo è un pezzo che non è invecchiato – e che può essere ascoltato, a oltranza e senza nessuna difficoltà, sedici anni dopo l’incisione. La ragione non risiede solo nell’arrangiamento, o nelle reminiscenze estetiche. Io dico che chi ha cantato la voglia di sentire ancora un “real belief” non può essere dimenticato, e merita di solcare i confini del suo tempo.

Love Song non è estranea al pop e rivela potenzialità d’arrangiamento disco; talento che va suonando e potrebbe suonare blasfemo per l’integralista dark, e tuttavia al contempo si rivela padre del successo internazionale di questo album. Capace di semplificazioni e linearità: appunto, di sprigionare segreta essenzialità. Robert Smith canta qualcosa di splendido: tradotto, suona come “Quando sono con te, mi sento giovane ancora” (“And I Remember / When We Were Young”: no?) e poi: “Quanto lontano potrò andare / per sempre io amerò solo te”. Niente di inavvicinabile. Né nell’arrangiamento, né nel testo.

Closer to our experience, than… (basta: voler ascoltare e interiorizzare la voce del tenebroso e ferito Smith).

Last Dance torna all’origine, Plainsong. Guida e direzione della melodia – spirito del brano – sembrano determinate dalla chitarra, la voce del Principe Paranoia attinge all’abisso della psiche e s’estende gocciando sangue dello spirito. Quando subentrano le prime note dell’incubo dark per antonomasia, Lullaby, abbiamo quasi la sensazione d’esserci liberati da una responsabilità e da un’angoscia – quella d’aver testimoniato un male che, a ben guardare, non è risultato nuovo alla nostra sensibilità. E quindi abbandoniamo anima e corpo a un ritmo diabolico e sensuale, la testa se ne va da sola e sorridiamo e danziamo insieme. Quante volte è già successo, da allora?

Questa è una favola gotica, e nasconde un segreto. Ascolta. “On candystripe legs spiderman comes / softly through the shadow of the evening sun / stealing past the windows of the blissfully dead / looking for the victim shivering in bed / searching out fear in the gathering gloom and / suddenly! a movement in the corner of the room! / and there is nothing I can do when I / realise with freight / that the spiderman is having me for dinner / tonight“.

 

Siamo entrati nella seconda metà di Disintegration.

Fascination Street. È un rock più robusto e più netto – per quanto possa essere rock un album come questo, figlio d’una cupa depressione e della contaminazione e della fusione tra generi; sembra esprimere rabbia e aggressività, pur nella sua dimensione dimessa e laterale. Contrasta eccezionalmente con una canzone come Prayers for Rain: dove si sprofonda nella malinconia, nel disordine terrificante della crisi, e si rivela quale sia il limite del dolore. La tastiera è una goccia di pioggia che va sgretolando qualsiasi pietra. La chitarra un lamento che si confonde nel pianto. “You shatter me your grip on me a hold on me / so dull it kills you stifle me infectious sense of / hopelessness and prayers for rain I suffocate I / breathe in dirt and nowhere shines but desolate / and drab the hours all spent on killing time / again all waiting for the rain / you fracture me your hands on me (…)” – e mi guardo attorno e vorrei qualcosa di diverso per poter non pensare a. You Strangle Me.

The Same Deep Water As You è praticamente un colpo di grazia. Che s’apre con la pioggia che Robert Smith pregava arrivasse, a lavare via (lava via, pioggia, tutto lava via) quel che era accaduto. Possibile possa…? Nescio, sed.

Io vorrei nessuno condividesse quel tremendo senso di colpa per aver perduto lei che. O: quel momento che. Perché allora un pezzo come questo serve solo a scarnificare e a lacerare ancora e ancora, e non c’è nient’altro che una pioggia di rimpianti a.

È lentissima, e non mentisce: «“Kiss me goodbye” pushing out before I sleep / it’s lower now / and slower now / the strangest twist upon your lips but / I don’t see and I don’t feel but tightly hold up silently my hands / before my fading eyes and in my eyes your smile / the very last thing before i go…/ the very last thing before i go…/ the very last thing before i go…/ I will kiss you I will kiss you I will kiss you / forever on nights like this / I will kiss you I will / kiss you and we shall be together…». Sì. We shall be together. Ah, ah, ah.

Qual è il segreto di Disintegration? È presto detto: è un esame di coscienza. E andrebbe fatto spesso. Per non ammettere che. (e la risposta è e rimane: Wish. Qualche anno dopo…)

 

Il pezzo eponimo è, se non giocoso, almeno trascinante. Paradosso? Forse no. Ancora strapiombo depressivo in Homesick. Tastiere padroneggianti e lentezza esasperata a suggerire una visione in slow motion di quel che avrebbe potuto (o: era) e non più… Dammi quel che può violare le regole del tempo. Untitled. A esorcizzare spettri. Una volta ancora. Closing time.

 

 

 

DISCOGRAFIA ESSENZIALE e BREVI NOTE

 

Three Imaginary Boys, Fiction, 1979.

Seventeen Seconds, Elektra, 1980.

Faith, Elektra, 1981.

Pornography, Elektra, 1982.

Japanese Whispers, Elektra, 1984. B-sides.

The Top, Sire, 1984.

The Head on the Door, Elektra, 1985.

Kiss me Kiss me Kiss me, Elektra, 1987.

Disintegration, Elektra, 1989.

Mixed Up, Elektra, 1990. Remixes, re-recordings.

Wish, Elektra, 1992.

Paris, Elektra, 1993. Live.

Wild Moon Swings, 1996. Fiction / Elektra.

Bloodflowers, 2000. Fiction / Elektra.

The Cure, 2004. Geffen.

 

 

Crawley, Sussex, England, 1976. Il cantante e chitarrista Robert Smith (21 aprile 1959) fonda assieme ai compagni di scuola Laurence Tolhurst (batterista) e Michael Dempsey (bassista) la band Easy Cure. Perduta la prima parte del nome, pubblicano per la nuova etichetta Fiction “Killing an Arab”. Era il 1979: anno del primo album, “Three imaginary boys“. Dempsey lascia la band nel 1980, andando ad unirsi a The Associates: viene sostituito da Simon Gallup.

Gallup, assieme al nuovo tastierista Matthieu Hartley, andrà a formare la line-up del secondo album: “Seventeen Seconds“. A separare The Cure dal terzo album, “Faith“, una tournèe mondiale. Era il 1981.

Chi non conosce il resto della storia, può andare a leggerla qui

 

Approfondimento in rete: The Cure Official Site / The Cure – A Chain of Flowers / Onda Rock / Scaruffi / Obscure / Rocklab.

The Cure in Lankelot: “Faith” (a cura di Fabio Mele)

 

Gianfranco Franchi, “Lankelot”

 

 

 

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