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Esperienze di Scrittura 6: la Resistenza

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Esperienze di Scrittura 6:

La Resistenza

(ovvero, Scrivere attraverso il tempo)

 

Ripescare nella memoria il proprio passato, la propria vita, non è mai semplice, ma in alcune occasioni può accadere che questo sia un gesto dovuto ai figli d’Italia.

Può accadere che il senso di responsabilità, di necessità per qualcosa che possa, un giorno, cambiare, in un certo senso, arrivi a sfrangiare la perdita e a limare la voce.

Quando si torna indietro alle lotte, alla guerra, è perché si desidera, in fondo, che gli altri possano andare avanti e perché il protagonista del viaggio a ritroso possa scoprire, ogni volta, parole nuove per raccontare.

E’ un’iniziativa piccola e dai grandi occhi, questa che si propone di scrivere la Resistenza.

La Resistenza di Romagna.

Un gruppo di anziani, che sono stati partigiani e staffette, girano per le scuole, i bar, le piazze, e raccontano.

Dicono dei cuori di paura e delle mani ispessite.

Spiegano i particolari di una vita che sembra lontana a chi ascolta. Perché è sempre così, gli anni hanno la loro logica, il tempo ha un suo trascorrere vigliacco che fa apparire distante ciò che spaventa.

Ed ecco spiegato il motivo, il desiderio di portare in giro le storie ed i racconti di guerra, facendo in modo che il narrare si ricongiunga con la memoria e il ricordo.

Gli incontri hanno come referente i ragazzini delle scuole medie o superiori, i signori delle osterie, le persone che vogliono consumare una giornata ascoltando.

Il gruppo dei “viaggiatori”, come si definiscono scherzosamente, si sposta e macina strada, e ancora strada, prendendo la questione come un dovere.

Esatto, questi anziani si sentono in obbligo di dire, “e lo faremo, finché ci sarà qualcuno ad ascoltare, anche solo una persona”.

Credo che questo aver vissuto così tanto e così intensamente non possa stare tutto in fondo al cuore.

Mi immagino che sia come scoppiare di vita. Per questa ragione, penso, Quinto e i suoi amici sentono la necessità di lasciare andare le storie.

I ragazzi sono “quelli che non c’erano”, quelli a cui è prestata la maggior cura, quelli per cui il raccontare non deve essere avaro. E’ come se si desiderasse non perdere nemmeno un particolare.

I signori e le signore dei bar, invece, sono gli interlocutori più divertenti. Qualcuno, durante la guerra, era un bambino e qualcun altro un ragazzo anch’egli. Ci si confronta, a volte si parla in dialetto. Diventa una questione di identità personale e locale. Ma va bene anche così.

Ogni percorso di ascolto è seguito da un uomo che, un po’ defilato, scrive e prende appunti, attento a non perdere alcun passaggio. E’ lui che dovrà cercare di mettere su carta gli incontri.

Procede con calma, è un lavoro lungo.

Mi dice che ogni pagina è rivista insieme all’autore e che la sua presenza, nei testi, è invisibile.

Si è allenato molto e ha faticato per diventare impercettibile, per essere solo mano scrivente.

Il passo successivo sono i “quaderni” che si stanno preparando.

Quaderni che raccolgono i momenti più importanti di questa avventura itinerante. E se la parola detta, sospirata, si sa, non può essere resa e imprigionata, è anche vero che la necessità di fermarla è un bisogno forte, a questo punto.

Dopo tanto girare, è ora che qualche parola trovi un po’ di ristoro. Un po’ di pace, “quella pace che noi non possiamo darci”, aggiunge Quinto.

E in effetti, l’idea che i “Quaderni della Resistenza” siano in preparazione, se da un lato, fa temere per la vitalità del parlato, dall’altro, offre un po’ di sollievo.

Oltre alla paura del dimenticare, scema anche l’ansia di non aver detto abbastanza.

E’ il presentimento che qualcosa si possa raccontare anche domani, con una certa legittimità.

  

Elisa Rocchi

 

 

 

 

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