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Rosso Pompeiano

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Rosso Pompeiano


Fumi d’incensi.
Marmi rossi.
Affreschi d’alberi e cieli.
Lucerne; mobili penombre.
Grande vasca di marmo verde. L’acqua serpeggia riflessi rubino. Come gonfio cadavere d’ippopotamo, Caio Flavio fuoriesce dall’acqua. Calvo, le palpebre socchiuse. Si vive bene a Pompei quando si è senatori.
Caio Flavio libera un rutto che spaventa le colombe affrescate tra i falsi alberi e i dodici schiavi adolescenti, maschi e femmine, immersi nella vasca.
Il rutto lo sveglia.
Attimo di smarrimento.
Riconosce la sua casa, i suoi schiavi. Un sorriso gli deforma il viso. Alza una mano stracolma d’anelli:
– Vieni cara, vieni…, dice a Lucilla, 12 anni, l’ultima arrivata.
Non ha ancora gustato quelle carni tenere, accarezzato quei lunghi capelli neri, lucenti più della seta. L’ha pagata cara la verginella della Bitinia, ma ne vale la pena. Coglierà quel fiore proprio ora, nella vasca. Lucilla, rifugiata al lato opposto, non si muove.
– Lucilla!, tuona Caio Flavio.
Gli schiavi adolescenti sorridono appena, gli occhi brillanti.
– Giulio, prendi quella stronza!, urla il senatore.
Un ragazzo afferra per il polso Lucilla che si dibatte, scalcia, graffia.
– Ora basta!, s’alza Caio Flavio.
Due passi fragorosi e si getta sulla ragazza. Urla soffocate, una breve lotta e una macchia rossa s’apre nell’acqua, come un fiore.
Un solo boato!
Marmi veri e falsi cieli crollano.
***
Quanto tempo è passato?
Cos’è successo?
Non vedo niente.
Riesco appena a respirare.
Ho male dappertutto, specialmente in mezzo alle gambe.
Il padrone m’ha squarciato la carne.
Corpi intorno a me; sono tutti morti. Puzza nauseante d’incendi, putrefazione, sangue e merda.
Ho fame. Addento e strappo via carne marcia, l’ingoio. Mi forzo a non vomitare. Devo resistere, perché sono sicura, qualcuno verrà a salvarmi: non posso finire così!

Giovanni Buzi

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