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Il filo della memoria

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Il filo della memoria

Non è la prima volta che parliamo di Guido Chiesa e sicuramente non sarà nemmeno l’ultima. Guido Chiesa, al termine della proiezione de "Il partigiano Johnny" avvenuta al Rosebud di Reggio Emilia il primo Dicembre, si affanna a scrollarsi di dosso l’etichetta di "regista della Resistenza", pur riconoscendone l’importanza enorme che caratterizza la sua carriera.
Da "Il caso Martello", ottimo esempio di cinematografia documentaria, in poi Guido Chiesa ha percorso varie tappe, così ci ha raccontato, prima di arrivare a quello che considera l’epilogo del suo lavoro sulla Resistenza, e cioè il film tratto dal più famoso romanzo di Beppe Fenoglio. Passando quindi per "Materiale Resistente", poi per "Partigiani" insieme con l’ANPI di Correggio, Chiesa giunge ("finalmente" dice lui stesso) a "Il partigiano Johnny" dopo cirac 15 anni dalla prima idea, grazie al coraggio di un piccolo produttore italiano, Procacci, che si accolla anche la pubblicazione editoriale di alcuni testi su Fenoglio stesso. Ma non parliamo del film ma piuttosto di cosa significa un film del genere.
Solo dopo cinquant’anni si ammette, anche tra i fieri ex-partigiani, che la Resistenza fu impresa di pochi, di una minoranza degli italiani, sia per ovvie ragioni geografiche sia per motivi ideologici e sociali. Nel film stesso è palese la differenza tra le brigate "rosse", i comunisti" guerriglieri e combattivi, ed i cosiddetti "azzurri" di ispirazione popolare e cattolica, più avvezzi alla trattativa ed al presidio. Il giudizio sulla Resistenza è mutato più volte nel corso di questi decenni. Chi scrive è nato e vive in una terra dove, per la maggioranza delle persone, i partigiani sono eroi, eroi che hanno liberato l’italia dall’occupazione nazi-fascista, eroi la cui memoria è destinata a durare nel tempo. In ambito nazionale invece la Resistenza è stata prima zittita ed inglobata nelle stanze della politica, poi paragonata erroneamente ad un Risorgimento, poi seppellita, poi strumentalizzata per glorificarsene o per screditare. Quello che resta dopo mezzo secolo sono i brandelli di una data che non unisce l’Italia (Chiesa ammette dolente che "non si è riusciti a fare del 25 Aprile il corrispondente italiano dell’Indipendence Day statunitense"), sono le parole e le storie della Resistenza che risuonano svuotate e decontestualizzate dal revisionismo storico e dal progressivo disinteresse verso quei venti mesi epici e misteriosi, eroici e violenti. Da sinistra si è taciuto colpevolmente per anni sui delitti e sulle vendette personali compiute durante la Resistenza, da destra si è prima taciuto e poi posto sull’altro piatto il presunto patriottismo dei Repubblichini, per esempio.
Quel che Guido Chiesa ed il suo film cercano di fare è di non interrompere il "filo della memoria", un luogo comune che però sintetizza ottimamente ciò che più ampiamente significa. La generazione dei partigiani ha tra i 70 e gli 85 anni, non ci indigna più se si definisce la Resistenza come una guerra civile, se si ricuce cosa successe tra i comunisti marxisti e gli azzurri monarchici. "Il partigiano Johhny" si etichetta senza timore come un film sulla resistenza dopo che tanti altri ne hanno sfiorato il tema e, più recentemente, qualcuno ha fatto un buco nell’acqua come con "Porzus" o "I piccoli maestri", brutto il primo, invisibile al pubblico il secondo. Il coraggio che Chiesa (ed il produttore citato più volte come "uno dei pochi che legge le sceneggiature") è quello di portare sullo schermo un romanzo complesso senza la falsità nell’imitare un neorealismo che ha già concluso la sua stagione, senza la retorica o la forzata spettacolarità di "Porzus", senza la paura di essere giudicato, senza una smaccata presa di posizione. A Chiesa inoltre il pregio di un attore come
Stefano Dionisi1 che incarna alla perfezione il borghese studente di letteratura inglese che finisce la sua esperienza tra i partigiani all’improvviso, così come all’improvviso era cominciata uscendo dall’eremo volontario delle silenziose colline di Alba.
Le scolaresche presenti in sala si appassionano chi alle azioni di battaglia, riprese verosimilmente con la freddezza dell’immagine decolorata, chi alle storie di passione, di ozio e di speranza che vediamo scorrere dietro a Johnny, sempre tremendamente dubbioso.
Nel lungo dibattito che segue la proiezione un loquace Guido Chiesa risponde ad impressioni molto differenti tra loro, proprio come se il film fosse così ricco da coglierne aspetti variegati (moltissimi frammenti infatti compongono i 135 minuti del film). Chi è rimasto entusiasta della spettacolarità del film, chi ne ha apprezzato la lucida e quieta coerenza col romanzo. Chiesa, visibilmente compiaciuto, ne approfitta per scagliarsi contro quello che definisce il cinema emotivo ed irrazionale, che si astrae dalla realtà dei fatti per amplificare smodatamente l’emozione o l’azione fino ad una sorta di misticismo, citando come esempio "Dancer in the dark". Qui storco il naso e colgo la vocazione analitica e documentarista del regista che, del resto, sfrutta ottimamente l’intensità di Dionisi e dei
paesaggi delle Langhe2 per un film molto emozionante, giustamente perché altrimenti non sarebbe stato un film. Con molta modestia mette in chiaro, nel prosieguo del dibattito, che il film deve essere solamente uno strumento educativo, non si può pretendere che la memoria della Resistenza sia affidata al cinema. D’accordissimo, in questo caso, nell’affermare che il cinema, come la letteratura o la musica, sono supporti importantissimi e differentemente insostituibili per ricordare la storia e capire il presente, un presente che, complice la cattiva televisione e l’ingestibile quantità di informazioni ora disponibili fa dimenticare che sia esistito un passato e che ci aspetta un futuro, un presente da consumare subito e da gettare.

Michele Benatti

1
Lo stesso Chiesa lo definisce un attore capace di grandi interpretazioni e di sonore schifezze.

2
Alba e le Langhe sono il vero luogo d’origine di Beppe Fenoglio.

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