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Intervista a Christian Del Monte

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Intervista a Christian Del Monte
(Secondo classificato del concorso 8KO-)

D: Ciao Christian. I complimenti per il tuo secondo posto sono scontati… e si aggiungono a quelli per Steady-Cam, pubblicato qualche mese fa sempre su questa rivista. Puoi ripeterti e presentarti – spiegando chi sei, cosa fai e quali sono i tuoi campi di interesse – per quei lettori che magari non hanno avuto ancora modo di leggere nulla di tuo?

R: Cercherò di essere breve. Mi chiamo Christian del Monte. Sono nato a Matera nel 1975 e ho vissuto a Taranto fino al 1993; ho poi trascorso due anni a Salerno e dal 1995 risiedo a Bologna. I miei spostamenti che potrebbero a prima vista sembrare del tutto immotivati, sono giustificati dalla mia iscrizione al corso di laurea in Scienze della Comunicazione, che ho quasi terminato: presenterò a febbraio una tesi sugli adattamenti ipertestuali, in Semiotica del Testo.

Nel corso degli anni, mi sono accostato nei più svariati modi alla scrittura. Prima come giornalista: tra il 1990 e il 1994 collaboravo con diverse testate giornalistiche tarantine. Poi come poeta: tra il 1995 e il 1996 scrissi due raccolte di poesie: Intermezzi e Princìpi. Infine, dall’estate del 1997 presi a interessarmi di scrittura in prosa e di saggistica semiotico-testuale reader oriented.

Fu in quel periodo che iniziai a scrivere Marta. In questo lavoro mi ero riproposto di liberare la mia scrittura dai vincoli imposti dai concetti di trama e di personaggio, per mezzo di una totale semplificazione della prima e l’appiattimento del personaggio sulle sue percezioni e azioni fisiche.

Nel 1998 scrissi Écru una raccolta di cinque racconti brevi: Martedì, Silvestro, DùNAMIS, Stretto e Fiore; questi sviluppano ulteriormente le problematiche testuali che mi si erano poste innanzi lavorando a Marta:
-Martedì approfondisce la tecnica del cut-up e del fold-in, utilizzando come base Marta;
-Silvestro oggettualizza i personaggi, trasponendo in prima persona le tecniche narrative elaborate in Marta;
-DùNAMIS continua a esplorare la problematica del dialogico in prima persona, con una particolare attenzione alla ritmicità del suo intrecciarsi;
-Stretto si costruisce intorno all’intento di realizzare una topografia dello spazio dialogico e di quello narrativo;
-Fiore, infine dichiara con la sua peculiare prosa i confini poetici entro cui écru si pone;
Filo conduttore di questi racconti è l’ideologia del dolore che se ne ricava: il dolore in essi diviene l’unico mezzo attraverso il quale i personaggi riescono a rendersi presenti a se stessi, l’unico modo in cui riescono ad acquisire coscienza della propria corporeità ed esplorarla.

Nel Marzo del 1999 ho fondato insieme ad altri sei amici la Dorsale, un’associazione culturale che si propone di promuovere iniziative culturali, in special modo performances. Primo atto dell’associazione sono state le quattro cene letterarie, in cui attraverso l’accostamento di particolari sapori e delicate pietanze io ed altri due cuochi abbiamo tentato di ricostruire le atmosfere di quattro opere letterarie del nostro secolo: L’Ulisse, di Joyce, Dalla parte di Swann di Proust, La morte della
Pizia di Durrenmatt e Quattro quartetti di Eliott.

Nell’aprile del 1999 ho scritto Steady-cam, un racconto lungo (70.000 caratteri ca) in cui le tematiche espresse dai precedenti lavori si sposano con una struttura narrativa che sembra porre l’intreccio in primo piano. In realtà in Steady-cam l’intreccio si appiattisce drasticamente sulla fabula, sulla storia: non sono presenti degli artifici narrativi del tipo flashback o prolessi, salti temporali o cose del genere. L’unica scelta di scrittura sta nel modo in cui è inquadrata la storia che scorre
davanti al lettore: è per rendere questa contemporaneità tra scrittura e lettura che ho scelto di utilizzare come unica forma temporale il presente.
Per il resto, sono presenti le tematiche che caratterizzano anche la mia produzione precedente: appiattimento del personaggio sulle sue azioni fisiche e e verbali, violenza nei rapporti interpersonali, acquisizione della consapevolezza della propria corporeità attraverso la fisicità del dolore.
In particolare, ciò che differenzia questo racconto dagli altri è il modo in cui sviluppo quest’ultimo aspetto: mentre negli altri il dolore era ricercato per lo più a livello epidermico, in questo caso esso è vissuto come penetrazione di questo strato, sia questa praticata con un ago o con un pene.
In proposito vorrei precisare che per me il dolore non si identifica con giochetti sado-maso e via dicendo: queste sono soltanto simulazioni di situazioni reali; in questo senso andrebbe letto l’inizio di ‘Steady-cam’.

Riguardo a questo racconto, c’è solo da aggiungere: che il 9 giugno il critico Andrea Grilli di "Zero in Condotta" ha presentato in pubblico Steady-cam nell’ambito della rassegna culturale Kom’Art 99; che il racconto è poi stato pubblicato in rete nel numero di settembre della vostra rivista.

Tra gli altri lavori che ho realizzato ci sono un gioco teatrale per l’infanzia: Diavolo e Angelo; tre sceneggiature per cortometraggi:
Frattaglie, John Wayne e la lumaca e Tre; la sceneggiatura di un giallo radiofonico in cinque puntate: Benito.
Ultimamante, (22.10.1999), mi sono esibito in una performance di Action Writing presso il circolo ARCI Sesto Senso, a Bologna.

D: Quale di queste cose ti ha spronato maggiormente a partecipare al concorso: il tema (fantascienza), la possibilità di essere pubblicato in maniera virtuale in internet, la sfida in quanto tale o la certezza di avere una nutrita schiera di giurati che avrebbero comunque valutato i tuoi scritti?

R: Non riesco a concepire un concorso in termini di sfida, non avrebbe senso: sicuramente genererebbe nevrosi ingiustificate tanto tra i primi quanto tra gli altri classificati. Sento le altre motivazioni come più vicine a me; soprattutto la seconda e la quarta, che accorpo insieme nella seguente: rendere disponibile per quanti più lettori è possibile quello che scrivo, siano o meno questi dei critici.

D: Il tuo discorso durante la premiazione è piaciuto… come è piaciuta la tua naturalezza nel parlare di un tuo lavoro e nello spiegare che ogni tanto un senso, semplicemente, non c’è. Vorresti riassumere per i lettori quanto hai improvvisato, o comunque parlarci di Film, magari riportando anche le osservazioni che abbiamo fatto insieme via email?

R: Mi ricordo dei primi tempi in cui mi occupavo di semiotica generale.
C’era una questione che mi creava diversi problemi: il modo in cui si costituisce il significato di un enunciato. Lessi diversi lavori di semantica in proposito, senza però trovare delle risposte adeguate. Mi avvicinai allora alla pragmatica di Pearce che mi fornì una risposta che ancora oggi avverto come adeguata: il significato non è un qualcosa di dato, bensì il risultato di un complesso processo di interazione simbolica tra fenomenico e soggetto pensante. Nel caso della semiotica del testo, il significato è tutto quello che del testo si attualizza durante un processo di lettura.
Riguardo ai contenuti di film 8.4.06, c’è da dire che in questoi lavoro ho prenso spunto da una problematica già presente, seppure in maniera marginale, in Steady-cam: quella dei cibi transgenici. A dire il vero pensavo di svilupparla in una serie di racconti brevi che delineino un possibile futuro controllato da multinazionali quali la Monsanto. A questo c’è da aggiungere che ho scelto di trattare qusto argomento in quanto convinto che la letteratura abbia comunque e sempre valenze politiche,
intendendo questa parola nella sua accezione pù ampia. E’ sempre stato così: tutto sta nell’esserne consapevoli, nel non dimenticarsene.
Per quel che riguarda il suo aspetto propriamente testuale, componendo Film 8.4.06 mi sono proposto di inserire delle marche semantiche che riportassero a ècru, quasi degli indizi che ne rivelassero l’esistenza. Inoltre ci sono diversi omaggi a William Burroughs, scrittore fuorigenere che più stimo tra tutti. In particolare, utilizzo alcuni sostantivi e aggettivi propri del suo stile in The soft Machine; ne è un buon esempio ‘ossidiana’.
A ripensarci, nonostante la brevità del testo, dietro c’è un grosso lavoro.
Forse è per paura che i diversi livelli di lettura mi sfuggissero e creassero delle dissonanze che ho accentuato tanto l’intelaiatura intorno a cui si organizza la narrazione. D’altra parte sono cresciuto in una zona industriale e per parte mia le uniche cose davvero belle da vedere in giro erano le strutture metalliche immerse da polveri di ruggine a due passi dal mare. A Taranto la ruggine si trova un po’ ovunque: pensa che dal cielo piove ruggine, e questa non è una figura poetica.

D: Rimanendo in tema con la festa ti faccio una domanda off-topic: come ti è sembrata? Ho visto che hai avuto modo di conoscere e di farti conoscere da molte persone e mi auguro che questo possa portare a collaborazioni o lavori comuni…

R: La festa mi è piaciuta molto soprattutto per il clima informale che l’ha caratterizzata. Il gruppo musicale era simpatico, molto ironico; poi, il buffet era ben assortito -ho apprezzato in particolare le ottime torte salate di fattura casalinga- e certo non mancava da bere. Poi devo dire che l’avervi incontrati di persona e l’essere salito su un palco per parlare -avete corso un grosso rischio-, hanno conferito alla serata un tocco particolare, almeno per me. Per di più credo di aver trovato grazie a voi
un modo per trascorrere l’inverno: ho scoperto che alla mia ragazza piace giocare a scacchi.
Oltre a ciò, mi ha fatto piacere conoscere altre persone che con me condividono la passione per la scrittura e l’interesse per la lettura.
Magari in futuro qualcosa insieme lo si potrebbe fare, ma questo non dipende solo da me.

D: sempre restando off-topic ci vuoi parlare anche di "In Tra(s)posizioni", una iniziativa particolarmente interessante che stai portando avanti con una associazione di Bologna?

R: L’accennerò in breve. Negli ultimi due anni si è registrato un crescente interesse per le problematiche testuali riguardanti la traduzione. In particolare, è stato
dato ampio spazio al rapporto che intercorre tra la cosiddetta opera originale e le trasposizioni che si ricavano da essa. Prendendo spunto da ciò, in questo studio vengono presentate delle opere di diverso genere: un racconto, un cortometraggio, un fumetto, una performance teatrale e un live set di musica techno-ambient, tutte legate tra loro da quel tipo di rapporto che relaziona l’opera originale alle sue trasposizioni. È nostro intento mostrare come la distinzione tra la prima e le seconde sia immotivata se limitata ad una prospettiva meramente testuale e se escluse le problematiche giuridiche del diritto d’autore e le ragioni dei mercati: d’arte, editoriale e cinematografico.

Sosteniamo questa tesi in quanto convinti che il concetto di opera originale nel corso degli ultimi trent’anni abbia esaurito la sua funzione valutativa all’interno del sistema critico artistico. Questo si è verificato non tanto per la sclerosi del sistema categoriale che deriva da tale concetto, quanto per il processo di revisione che ha interessato quelli di lettore e autore.
Il primo, privato da ogni riferimento a colui che concretamente interpreta un’opera d’arte, il lettore reale, diviene quell’insieme di competenze culturali che l’opera presuppone perché sia attualizzata in ogni suo aspetto sintattico e semantico; si definisce in questo senso lettore implicito L’autore, anch’esso sottratto del suo referente reale, diviene quella strategia testuale che organizza l’insieme sintattico e semantico che compone l’opera e si definisce au-tore implicito.
Il concetto di originale dipende da quello di autore inteso come autore reale, un individuo unico ed esistente in un determinato spazio e tempo:
l’autore dell’opera esiste indipendentemente da che la data opera sia o meno presente. Se, invece, per autore si intende l’autore implicito, una strategia testuale, appare evidente come sia esso a dipendere dall’esistenza dell’opera. In altri termini, se nella prima prospettiva è l’esistenza dell’autore a garantire quella dell’opera, nella seconda questo rapporto si inverte.
Tornando alla questione iniziale, un’opera si può definire originale solo nel caso in cui sia stata realizzata da un dato autore, il che significa che è necessario ci riferisca ad un autore reale. Abbiamo tuttavia già osservato come nei più recenti studi testuali questo sia stato sostituito dall’autore implicito. Sostituendo all’autore reale quest’ultimo, definire originale un’opera significa sostenere che questa è stata realizzata da una strategia testuale, il che equivale a dire che un’opera originale è
originale in quanto opera, visto che il concetto di strategia testuale comprende quello di opera.
Da ciò concludiamo che, se considerata nell’ambito delle teorie del testo, ogni opera costituisce un originale. Ci sembra superfluo aggiungere che se
tutte le opere sono originali non ha neppure senso parlare di trasposizioni.
Queste nostre considerazioni non sono fini a se stesse: interessano invece un settore economico che negli ultimi anni ha vissuto uno sviluppo esponenziale. Ci riferiamo al mercato dei diritti d’autore. Questo mercato, che può essere considerato lecito o meno secondo i punti di vista, si compone di tutte le transazioni economiche che si realizzano attraverso la cessione o la concessione di un diritto esclusivo dell’autore a terzi.
Tra questi diritti esclusivi compare anche quello di trasposizione: nessuno può trasporre un’opera di qualcuno senza il suo permesso. Nel mercato del diritto d’autore tale permesso ha un suo prezzo e corrisponde a una determinata forma di contratto.
Nel caso in cui questo permesso non venga richiesto, è diritto dell’autore o del possessore dei diritti esclusivi di utilizzazione economica dell’opera, intentare causa.
Ora, il punto è che di solito queste cause sono combattute a colpi di improbabili analisi testuali che, più che dimostrare qualcosa circa l’oggetto esaminato, si risolvono in un verdetto critico favorevole per colui che può dimostrare di aver creato per primo l’opera.
Questo significa che se il signor Gino ha scritto nel 1989 l’opera Y e il signor Benito l’ha trasposta nel 1990, Gino ha ragione solo nel momento in cui può dimostrare di aver creato l’opera Y in quell’anno: se malauguratamente l’ha registrata nel 1991, la sua non è più l’originale, bensì una trasposizione.

Premesso tutto questo, gli intenti dell’allestimento da noi realizzato sono i seguenti:
  • mostrare come sia del tutto arbitrario distinguere la trasposizione dall’originale da un punto di vista testuale;
  • rivelare quale sia il reale meccanismo che muove il mercato del diritto d’autore: non la salvaguardia di determinati diritti, bensì la difesa di un sempre più vasto settore d’interesse economico.

    Per il momento abbiamo una data a Torino da definire nel mese di dicembre e una a Bologna il giorno sabato 8 gennaio 2000 presso il Livello 57.

    D: Ribaltiamo un attimo i ruoli… hai avuto dodici giurati che hanno giudicato il tuo testo (e ne hai anche conosciuti di persona un paio)… giudica tu adesso i giurati… dimmi cosa ti è piaciuto e cosa no nel loro modo di analizzare ed interpretare quanto hai fatto.

    R: Mi ha divertito molto constatare come in questo piccolo campione di giurati si sia riprodotto un piccolo spaccato dell’universo critico letterario italiano:
    – da una parte ci sono quelli che considerano il testo come un insieme organizzato di detto e di non detto la cui manifestazione lineare è inscindibile dalla sua struttura profonda;
    – dall’altra stanno quelli che considerano il testo un sistema organizzato di codici che veicola un significato;
    – infine, ci sono quelli che hanno una concezione meccanicista del testo, ossia che considerano il testo come un insieme organizzato di codici e nulla più.

    I primi non privilegiano del testo qualcosa in particolare, ne giudicano piuttosto gli effetti di senso che questo si propone di generare e quelli che poi effettivamente genera nel lettore. Per loro un buon testo è qualcosa che nel corso del suo processo di attualizzazione (più comunememte: lettura) fornisce un di più di senso.
    Questa categoria di critici ricorda un po’ i rabdomanti: cercano l’acqua rilevando con un bastone le vibrazioni elettromagnetiche generate dalla terra, e a volte la trovano.

    I secondi privilegiano il contenuto, considerando paradossalmente il testo quale un contenitore per certi versi superfluo. Autore preferito da questi credo non possa che essere Esopo, scrittore greco che era solito riportare in appendice ad ogni racconto il suo significato. Di questi critici aveva gran conto anche Dante Alighieri, che per evitare annose questioni di esegesi -nel Medioevo molto più in voga di adesso- si premurò non solo di scrivere, ma anche si spiegare con un nutrito apparato paratestuale la "Vita Nova". Non ebbe purtroppo il tempo di fare lo stesso con la sua "Comedia": in fin di vita affidò la cosa a un figlio, di cui non si è però saputo quasi più niente. Con le conseguenze che tutti noi conosciamo. Questa categoria di critici è affiancabile a quella ben più pericolosa dei pedagoghi, molto in voga nei regimi autoritari.

    I terzi considerano il testo alla stregua di un meccanismo semantico pragmatico che può funzionare più o meno bene, tutto sta nell’evidenziare eventuali imprecisioni nell’utilizzo dei codici che lo compongono e correggere. Questa è la posizione più amata da quei critici che di nascosto aprono improbabili scuole di scrittura creativa o pubblicano edificanti lavori di saggistica sul modo in cui bisognerebbe scrivere racconti. Se qualcuno fosse interessato, l’editrice Nord mi sembra abbia in catalogo libri del tipo: come si scrive un romanzo SF, come si scrive un romanzo Horror etc.
    Questa categoria è affiancabile a quella del meccanico: come questo, tende a credere che se la macchina non parte pur non presentando evidenti difetti meccanici, la colpa è del guidatore.

    Devo dire che tra tutti, i rabdomanti sono quelli che mi stanno di gran lunga più simpatici e ai quali mi sento più vicino: credo che questo lo aveste già capito…
    Una sola osservazione: tutto quello che scrivo non è casuale, a cominciare dalla struttura narrativa per arrivare alle scelte grammaticali; in tutto questo è compresa anche la qualità del mio italiano. Per chi fosse interessato ad addentrarsi nella complessa tematica sulla qualità delle competenze linguistiche di un madrelingua e dei modi d’impiego di queste in campo artistico, consiglierei di accostarsi ai diversi studi esistenti che riguardano l’idioletto (v. Barthes, elementi di semiologia, Einaudi,
    Torino, 1964; cfr. anche: Todorov ed., I formalisti russi, Einaudi, Torino, 1968).

    D: Quali tra i racconti che hanno partecipato al concorso, e ovviamente escluso il tuo, avresti premiato come primo secondo e terzo?

    R: Primo: ‘De civitate dei’; secondo: ‘Non poteva essere dimenticato’; terzo: ‘By Dreams’.

    D: Come sai la giuria ha ricevuto tutti gli elaborati insieme, senza nessuna indicazione sull’autore (niente nome, età o sesso) e – separatamente – hanno espresso il loro parere sia per esteso sia in forma di voto. Secondo te il sistema è buono o avresti preferito che la cosa fosse gestita diversamente?

    R: Secondo me è un buon sistema: semplice ed efficace.

    D: Se in un futuro ci sarà una nuova versione di ottokappaomeno pensi di partecipare?

    R: Parteciperei con gioia: secondo me è un’ottima occasione per avere un feedback su quello che scrivo. Questo è importante, credo…

    D: Come sei entrato in contatto con KULT?

    R: L’ho trovato sul motore di ricerca Yahoo alla voce "riviste elettroniche", o qualcosa del genere.

    D: Puoi dirci in due parole pregi e difetti di KULT Underground e degli e-paperback?

    R: Per quanto riguarda KULT Underground, riesco solo a vedere dei pregi: è articolata bene a livello di lavoro redazionale, ha tempi di risposta
    rapidi, il sito e la rivista elettronica sono costruiti molto bene, privilegiando la facilità di accesso alle informazioni; rispetta le scadenze mensili.
    Gli e-paperback sono poi una piccola trovata geniale: credo che se sviluppati ulteriormente, potrebbero anche riconfigurare l’idea che abbiamo di ipertestualità narrativa off-line.
    Unico difetto, non imputabile alla rivista ma alla natura del supporto, è il notevole affaticamento visivo a cui il lettore si sottopone; tuttavia questa è una questione che deriva dalla tecnologia e che in questa dovrà risolversi. Comunque, anche sotto questo aspetto da quello che vedo KULT Underground fa di tutto per ridurre questo inconveniente, soprattutto con l’utilizzo di un’efficace implementazione grafica e di colori abbastanza ‘soft’.

    D: Una ultima domanda: cosa ne pensi del fatto di essere pubblicato in formato elettronico e della letteratura su internet in generale? Come forse saprai c’è chi sostiene che chi è bravo pubblica su carta, chi invece non è nessuno finisce nel mare della rete…

    R: Credo che questo giudizio a priori sia considerabile quale una delle tante forme di manifestazione di una questione di fondo non marginale: la ridefinizione del ruolo dell’editoria cartacea nell’industria culturale dopo lo sviluppo di internet.
    Ho detto che si tratta di un giudizio a priori per il fatto che associa uno statuto valoriale all’opera indipendentemente dai processi testuali che avvia e in cui si identifica, ma solo in base a una sua caratteristica extratestuale: il suo supporto fisico; questo è ridicolo: in altre parole sarebbe come dire che da un punto di vista testuale l’"Infinito" di Leopardi sia più complesso su supporto cartaceo che su quello elettronico.
    In proposito sarebbe interessante chiedere ai sostenitori di questa tesi su quale tipo di supporto sia più proficuo avvicinarsi a Omero…

    Riguardo alla ridefinizione del ruolo dell’industria editoriale cartacea, c’è da dire che questa sta tentando di far passare l’idea secondo cui su carta si pubblicchi soltanto del materiale vagliato da lettori ‘esperti’ che sanno riconoscere una buona opera tra le altre; charamente in rete finirebbero quelli che sono stati scartati da questi lettori ‘esperti’. Mi si permetta a questo punto un breve excursus sull’industria editoriale cartacea.
    Come tutti penso sappiamo, per compiere delle scelte bisogna avere in mente dei criteri di giudizio. Il lettore ‘esperto’ dice di essere guidato nella sua opera di filtro da parametri di qualità, regolati in base alla linea editoriale della sua casa editrice.
    La linea editoriale è semplicemente un’idea a priori sul tipo di opere che la casa editrice ritiene compatibile col suo catalogo; dato che chiaramente i cataloghi sono tutti di qualità, è evidente che la qualità di un’opera si misuri in base al grado di compatibilità con detto catalogo.
    In parole povere questo vuole dire che per il lettore ‘esperto’ un’opera di qualità è caratterizzata dal fatto di ritrovarsi all’interno dei parametri di qualità definiti dalla linea editoriale della sua casa editrice.
    Stabilito questo, poniamoci una domanda: perché "Il Pasto nudo" di William Burroughs non è stato pubblicato dalla Mondadori o dalla Rizzoli, bensì da
    una piccola casa editrice come SugarCo?
    La risposta è che nel 1959 quest’opera non rientrava nella linea editoriale di queste case editrici e non era ritenuta per questo un lavoro di qualità.
    Come tutti ben dovremmo sapere, invece, "Il Pasto Nudo" è tra i romanzi più importanti del Novecento e pone William Burroughs tra i più grandi scrittori della letteratura in lingua inglese di tutti i tempi; e questo lo dicono i critici di detta letteratura, non solo io.
    Cosa è successo allora? Il lettore ‘esperto’ si sarebbe sbagliato? No, semplicemente il Pasto Nudo non era compatibile con i cataloghi delle grandi case editrici italiane; questo perché poco fruibile a una prima lettura in quanto privo di un vero intreccio.

    Il giudizio sarà probabilmente stato:
    "Egregio sig. William Burroughs
    Siamo spiacenti di comunicarLe che abbiamo letto il Suo manoscritto e l’abbiamo trovato non adatto alla nostra linea editoriale. Belle immagini,
    begli spunti qua e là, ma la storia dov’è? Un’opera immatura."

    Credo che avrebbero potuto indirizzare questo stesso messaggio, cambiandone intestazione, a parecchi altri scrittori che hanno fatto la storia della letteratura di questo secolo, se non anche del precedente. Vi immaginate una lettera di questo genere scritta a Joyce o a Pavese? Se ci fate caso, i grandi scrittori hanno pubblicato o perché membri dell’intellighenzia del tempo o in quanto impiegati di qualche casa editrice; altri, semplicemente perché conoscevano una persona che rientrava in queste due categorie.
    Per lo più il sogno di un buon editore era un autore come Eugene Sue, non certo uno come Joyce. Pubblicare quest’ultimo era un po’ come fargli un favore.

    Preferisco non entrare nel merito della questione sulla natura imprenditoriale delle case editrici cartacee, in quanto credo già nota a tutti.

    In conclusione, non credo che qualcuno possa sostenere con disinvoltura che il materiale pubblicato e distribuito in rete sia inferiore a quello cartaceo, in quanto:
    a) Il supporto entro certi termini non influenza il testo.
    b) Le scelte editoriali delle case editrici sono regolate da criteri diversi da quelli qualitativi.

  • Marco Giorgini & Christian Del Monte

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