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Shutter Island

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La trama si sviluppa come in un sogno. In un incubo. Traumi e ferite dell’anima che continuano a sanguinare. Piani temporali diversi che si susseguono e si fondono insieme. I ricordi della guerra, i campi di concentramento, il filo spinato e le mani degli ebrei che vi si aggrappano. Particolari. I ricordi della propria vita distrutta. La morte di una moglie, uccisa in un incendio, da un piromane.
Nella mente di Teddy Daniels, ispettore federale, l’arrivo a Shutter Island, un luogo di detenzione per malati psichici, mette in moto una serie di processi psicologici che lentamente portano alla luce avvenimenti rimossi e drammi ancora non superati. Teddy Daniels è sull’isola per compiere una missione, trovare una paziente scomparsa.
Durante le sue indagini, l’agente, verrà in contatto con una realtà agghiacciante, pregna della malattia mentale che striscia tra i corridoi del manicomio e scivolerà piano dentro se stesso fino alla scoperta di atroci verità.
Scorsese compie un’ennesima riflessione sulla violenza e l’uomo, solo che questa volta non la ricerca nell’ambiente in cui l’uomo cresce e vive quanto dentro gli abissi della propria psiche. Quest’opera è un potente viaggio nella mente umana e nelle sue distorsioni, il cinema diventa strumento per portare sullo schermo i processi primari del nostro cervello, quelli irrazionali e lo fa attraverso la forza delle immagini: reali, oniriche, allucinate, distorte. Il cinema come scrittura visiva della follia. Movimenti di macchina ascendenti e vertiginosi, montaggio e ritmo in preda ad attacchi di panico, inquadrature prodotte dal’assunzione di droghe psicotrope o da crisi da astinenza.
E poi la fisicità dell’isola, la sua inquietante presenza. Shutter Island è anche un film di elementi, di forze distruttrici. Il vento, la pioggia, la tempesta. E la roccia. Le scogliere fredde e nere. L’acqua che circonda e distacca questo luogo dal mondo. L’isola è la proiezione materiale dell’orrore che contiene.
Scorsese, come accade nelle sue opere meno personali (Cape Fear, The Departed) usa i meccanismi di genere (narrativo, cinematografico) per un lavoro attento e sperimentale sulle varie componenti filmiche (regia, sonoro, colori, fotografia, montaggio) rispettando sempre un’idea di cinema che si muove tra autorialità e mercato e che riesce a trasmettere, ogni volta, l’immenso amore che il regista americano prova per questa arte.

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