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Sala d’attesa

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Sala d’attesa

Aspettava. Era da una vita che non faceva altro, e in fin dei conti non sapeva fare altro.
Aspettava. Fin dall’inizio: nove mesi aveva aspettato per poter uscire finalmente da quell’antro oscuro che era stato (ed era ancora) sua madre; eppure non erano stati i nove mesi più noiosi e tetri della sua vita. Per lui, la Terra non era stata altro che un’immensa sala d’attesa, sporca e affollata da sei miliardi di malati, più o meno immaginari e più o meno gravi, senza un display a cifre luminose che indicasse il prossimo. Aveva aspettato un anno per poter comunicare con gli altri e quindici per rendersi conto, con grand’amarezza, di quanto inutile e deludente era stata quell’attesa; altri tre per imparare a leggere e a scrivere (e di questo fu sempre felice); ma soprattutto aveva aspettato vent’anni per conoscere l’Amore (con la "A" maiuscola): due decenni, quattro lustri, un quinto di secolo, un cinquantesimo di millennio, più di settemila giorni, oltre mezzo miliardo di minuti! E da allora era cominciata quella che per lui rappresentava l’ultima e suprema attesa: quella del matrimonio e di una mezza vita (vi o ta, non l’aveva mai capito, e sinceramente non gli interessava neppure più tanto) finalmente completata: Vita! Era stato un paziente modello in tutti quegli anni, non era mai passato davanti a nessuno, aveva sempre rispettato il suo posto in fila (e che fila!) e aveva sempre ceduto il passo a chi aveva più fretta di lui. Anche ora stava aspettando: era in attesa che la luna facesse capolino lungo quella linea perfettamente diritta, che separava il rosso dal blu. Una gran serenità albergava nel suo cuore, perché in quel momento la vita aveva deciso di regalargli una certezza, in altre parole quanto di più prezioso e ricercato esista sulla Terra, dopo l’oro e il petrolio: anche quella sera la splendida sfera d’argento avrebbe benedetto i baci di milioni d’innamorati, senza tradirli. E questo lui lo sapeva (eccome se lo sapeva!): era lì solo per lei. L’aspettava. Era coricato sulla spiaggia, con le braccia incrociate sotto la testa, come un ragazzino sognante e proprio come un mese prima, quando, su quella stessa bianca sabbia, aveva atteso (per l’ennesima volta in attesa…) che sorgessero le stelle e che infine iniziassero a cadere, e allora aveva un’insegna al neon, rossa, davanti agli occhi, in cui lampeggiava l’unico desiderio che era l’unico composto chimico che il suo cervello fosse in grado di secernere. Tante lacrime aveva versato quella notte il cielo, eppure in quegli istanti era convinto che fossero diamanti, perché al suo fianco, mano nella sua mano, c’era Lei: non riusciva proprio a gettarla via quell’immensa enciclopedia ciclopica che erano due anni di ricordi, piena zeppa di illustrazioni a colori e con così tante (troppe) pagine riguardanti il futuro già scritte, lette e rilette. Quanto aveva atteso per Lei! In macchina, nelle nebbiose e fredde notti d’inverno, mentre i vetri s’appannavano e Lei, in camera, sceglieva il colore del maglione; sul divano, quando stava male, sussultando ogni volta che il telefono che teneva in grembo suonava oppure il campanello di casa trillava; in piedi, davanti alla sua scuola, sotto la pioggia battente, sentendosi un po’ dublinese e un po’ in paradiso; e, soprattutto, aveva atteso due anni, con la convinzione che Lei fosse la sua sillaba mancante per formare la parola Vita. Aveva aspettato. Eppure tutto questo si era dimostrato vano e da una settimana quell’attesa era finita, davanti a una pizza (attesa anch’essa per più di mezz’ora), quando Lei gli aveva confessato di essere troppo diversa da lui e che insieme non potevano costruire altro che castelli in aria. In aria, come la luna. E ora aspettava. Aspettava che sorgesse la luna. Piena. Quella notte non sarebbe stata una falce a rischiarare il cielo, anche se lui stava attendendo proprio una falce. Abbassò lentamente il suo sguardo, prima sulle rade nubi arancioni, poi sulla linea dell’orizzonte, quindi sul mare e
infine sui suoi piedi. Il mare era arrivato a lambirli e aveva già iniziato a insinuarsi sotto i suoi calzoni, fino alle ginocchia. Ne avvertiva l’umida presenza. Si soffermò sulle sue caviglie e sulla corda che le univa. Questa, fino a qualche ora prima, si stendeva da una parte all’altra del balcone della sua camera e veniva usata tutte le sere per appendere gli asciugamani e i costumi bagnati, di mare e di rena, e fino ad allora era servita soltanto a quello scopo. Ora invece girava attorno alle sue calze di spugna, ormai fradice, formando spirali strettissime (ma non troppo: era stato lui stesso a legarsi…), proseguendo in un groviglio di nodi (cinque o sei, non ricordava con precisione) e terminando in un sostegno di cemento per ombrelloni, per aver la certezza che almeno quell’attesa non fosse vanificata (almeno non l’ultima della sua vita!) dalla sua incapacità o dalla sua distrazione. Rassicurato da quel pitone di nylon, si stese nuovamente e ritornò a quello splendido panorama siderale. Aspettava, con una leggera trepidazione che cresceva col passare dei minuti. Era la stessa sensazione che aveva provato quando si era recato da lei per il loro primo appuntamento: prima d’allora non era mai uscito da solo con una ragazza e non aveva la più pallida idea di ciò che lo aspettava. Quella sera passò né rapidamente né lentamente, tra imbarazzi silenziosi e aneddoti di vita: niente d’eccezionale, insomma; eppure Lei, il giorno seguente, gli telefonò per ringraziarlo e da allora lui cominciò ad attenderla, a pazientare e ad aspettare, aspettare… E anche ora aspettava. Aspettava che sorgesse la luna, e con essa, finalmente, l’alta marea. Era un’orma sulla sabbia: la prima onda l’avrebbe cancellata per sempre e il giorno seguente un altro piede avrebbe preso il suo posto.


Luca Busani

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