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My sweet home

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My sweet home

In una città che ormai accoglie gente di tutto il mondo non potevano mancare i Balcani a Berlino. O meglio, il ritmo dei Balcani e dei suoi film a ritmo di strumenti a fiato, qui rappresentati benissimo dai famosi "Balkan All Stars".
La Berlinale sublima Berlino e sé stessa con "Sweet home", autoeleggendosi ombelico d’Europa, capace di concentrare in un pittoresco bar personaggi che provengono dalla Russia, dal Marocco, dal Giappone, dal Brasile e chi più ne ha più ne metta. In fondo (tutto il mondo è paese) cosa c’è di meglio di un bar per parlare di permesso di soggiorno, di problemi famigliari, di lavori persi, di occasioni mancate, di America. Beh, è proprio il bar il luogo ideale per incontri di questo tipo e discorsi di questo genere: fuori dalle mura di casa intrise di ricordi, silenzi, responsabilità, davanti ad un bicchierino d’alcol che scioglie la lingua, parlando con l’unica persona che ti dà sempre ragione, qualunque cazzata tu gli sia raccontando.
Il film, infatti, si svolge quasi completamente in questo locale, trasformato per l’occasione in sala da ricevimento per un matrimonio moooolto improvvisato tra
un californiano1 venuto a Berlino per cercare non si sa che cosa (o per sfuggire da non si sa che cosa) ed una tedesca conosciuta un mese prima e un po’ volubile. Quando ancora i personaggi si stanno scaldando ecco che arriva improvvisamente nel bar la madre della futura sposa, inizialmente piuttosto perplessa su ciò che sta per accadere, memore della precedente relazione della figlia con un senegalese che le ha dato un figlio e poi si è dileguato. La madre, in fondo, vuole solamente una cerimonia che assomigli quanto meno ad un vero matrimonio e così il bar diventa la chiesa e il ristorante. Gli invitati? Niente di meglio che gli altri clienti del bar, una bella accozzaglia di storie proprio lì, nel buco del culo dell’ombelico del mondo. Quando la musica attacca è impossibile fermare la festa e molto velocemente gli sconosciuti invitati diventano un tutt’uno di confessioni, rancori, ideologie, colori, sfoghi e corteggiamenti. Ciò che li accomuna è l’essere lontani da casa e l’infelicità: da qui nasce una divertente gara a chi riesce a chiamare i propri genitori per dirgli che è un fallito, andato via da casa per vivere peggio di quanto non facesse prima. Sfilano così il mancato cantante sudamericano alla Willy De Ville, la coppia di ragazzini giapponesi, il marocchino politicizzato che ha l’ossessione del Muro, i due russi "fratelli di sangue" ma pronti a fregarsi alla prima occasione, il barista, lo sposo al quale chiedono in continuazione Perché se ne sia andato dalla California quando tutti vorrebbero fare l’opposto. In un lungo tira e molla condotto sul filo del matrimonio "My sweet home", diretto da Filippos Tsisos, arriva alla fine. Berlino? Berlino la si intravede nelle rare scene esterne ma soprattutto la si percepisce dalle parole dei personaggi. Berlino e soprattutto ciò che vuol dire "Berlino" sono continuamente al centro della scena. Per il marocchino è una città senza più senso e senza più un ordine, da quando è caduto il Muro che, almeno, dava un pretesto all’esistenza della città stessa. Per altri è un approdo, che poi delude. Per qualcuno è un passaggio, ma poi ci si ferma per anni. Per tutti è una città, in fondo in fondo, come un’altra, solo che tutti vanno lì ed un motivo ci deve pur essere.
"My sweet home" oscilla sempre tra la tragicomica e l’agrodolce, come se si narrasse del peggio che c’è ma anche del meglio allo stesso tempo. Così sottolinea anche la musica, triste e malinconica ma capace di esplosioni di gioia improvvise e trascinanti tali da resuscitare anche l’ultimo dei depressi. Al termine della visione pensavo addirittura che avrebbe vinto un premio, qui alla Berlinale, forse trasportato dall’entusiasmo per un film divertente, colorato, sapientemente dosato negli ingredienti. No, no, non fate il confronto con Kusturica dopo avere visto "My sweet home" perché il regista serbo non ha il monopolio di tutto ciò che "balcaneggia" al cinema. Ve lo scrivo perché poco prima dell’inizio della proiezione ho visto una fotografia del suddetto in posa "estasi-musicale" ed al termine in molti hanno fatto il suo nome, ma Kusturica, oltre ad avere realizzato magnifici film, ha anche la "colpa" di avere accentrato su di sé tutte le caratteristiche di un certo tipo di cinema quando in realtà esisteva già, tanto che lui, il cinema, lo ha studiato a Praga…
Ma, per concludere ritornando a "My sweet home", io a pensarci bene un premio lo avrei assegnato perché è un bel film, perché è divertente e raramente i film divertenti vincono, perché parla di Berlino, perché sì.


Michele Benatti

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L’attore Harvey Friedman è raffigurato qui sotto.

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