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Classe quinta, sezione B…

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CLASSE QUINTA, SEZIONE B. PRIMA ORA: COMMEMORAZIONE

Era un mercoledì sera, poco dopo le ventitré e poco meno di due ore e quaranta minuti alla chiusura e il gestore non ci si era ancora rassegnato che, alla vista del suo registratore di cassa, tragicamente muto e come non mai, andò in bestia.
Improvvisamente iniziò a camminare avanti e indietro sulla pedana dietro il bancone, guardando l’orologio più dei suoi respiri, sorseggiando ad ogni giro un intruglio di colore differente, e si bloccò.
Chiamò a sé uno dei giovani camerieri. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio e il giovane schizzò fuori, marciando come un soldato. Appena fuori, lo si sentì gridare: "il bar è qua! il bar è qua!". Molte volte.
Finché la sua voce si fece lontana, sempre più, e poco dopo si spense.
Renato, guardò fuori dalla finestra, tirò fuori da una tasca l’immancabile libro, che portava sempre con sé, "Lo Zen nelle culture della metropolitana", era il titolo, lo impugnò e tenendolo in alto e agitandolo come un provetto profeta, ordinò un bicchiere di vino rosso e una sigaretta e si passò una mano sui capelli e disse, con foga:
"Niente! Anche lui inghiottito… la nebbia si porta via tutto. Evviva!"
E si rimise seduto, là e come era stato sino ad allora, e con il libro in tasca e il suo guardare perso ma tuttavia dall’apparire impegnato. Si credeva un pittore, ma nessuno gli credeva.
Il gestore riprese a camminare, i tre giovani camerieri ad evitare di incrociare i suoi sguardi e noi, cinque avventori, ai nostri bicchieri e alle nostre faccende. Da parte mia mi gustavo in angolino questa sensazione nuova e l’imprevisto di quella serata dove la nebbia s’era portata via ogni cosa, anche la città. In fin dei conti credo d’aver sempre più amato la memoria che l’evidenza.
Giunse la mezzanotte e tre minuti. Ognuno di noi cinque aveva già consumato più di quanto bevesse in tre visite e tutta questa compassione si faceva sentire già nel fegato, quando fu che uno, che aveva avuto in quella zona un negozio di casalinghi, si alzò e si avvicinò al gestore. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio, che lo fece sorridere. Poi il gestore andò in cucina e ritornò con una corda. Chiamò uno dei tre giovani camerieri, gli legò un capo della corda attorno alla vita e gli indicò l’uscita, dicendogli qualche cosa all’orecchio.
Costui obbedì.
E poco dopo si sentì:
"Birre, cioccolate e bruschette sono qua! Birre, cioccolate e bruschette sono qua!"
E si vedeva la corda scivolare via, metro su metro inghiottiti dalla porta, e la voce del giovane cameriere che si faceva sempre più lontana, finché, un altro dei giovani camerieri, che teneva l’altro capo, si mise a tirare opponendo resistenza e con crescente furore fisico e disse appena "aiuto, non ce la…" che venne risucchiato fuori.
Per un po’ lo si sentì chiamare per nome il suo collega, che non si sentiva più, poi sempre più da lontano, finché fu di nuovo silenzio.
Renato si alzò e fregolandosi le mani, guardando di sott’occhi la finestra, disse:
"Ah, ah, via tutti! Tutti si porta via la nebbia questa notte."
Il gestore e l’ex commerciante di casalinghi si scambiarono una breve occhiata, tra l’odio e lo stupore e il commilitonilismo dei commercianti, e iniziarono a camminare avanti e indietro, l’uno dietro il banco, l’altro davanti, e mai nello stesso verso.
Fu lì che uno, che mi aveva fissato per più di un’ora, sino ad infastidirmi più della vista d’una zanzara viva a dicembre, si alzò di scatto e puntò Renato con passo deciso. Gli fu a fianco, prese una sedia, che in quel bar erano piccole come se fossero degli accessori di un asilo nido, l’alzò e con questa picchiò forte sulla sua schiena. Senza dire una parola.
Gli bastarono tre colpi, per fracassare la sedia e per farci rizzare tutti come tanti cobra, e mentre costui mostrava evidenti intenzioni di voler continuare in questa sua pratica anche con noi, già c’era qualcuno che lo tirò a sé per qualche appiglio e ormai gli stava spezzando la spina dorsale, come un ramo secco sul suo ginocchio.
L’unico giovane cameriere superstite incominciò a gridare:
"Uccidi, uccidi…"
E anche noi stavamo per unirci, quando fu che d’improvviso la porta si spalancò ed entrò un signore, che pareva aver tre cappotti messi uno sopra l’altro, con lo sguardo da orco e le mani tenere come d’un bambino, con tutta la nebbia che c’era fuori addosso. Ci guardò e noi ci fermammo in una scena fissa.
"Beh, che fate le belle statuine?": disse costui.
"Cazzo": dissi tra me, e con me altri incominciarono ad imprecare a voce alta, meno che Renato, che rideva come un mimo in faccia al suo aggressore sfasciato.
Erano l’una e ventitré e mancavano trenta sette minuti alla chiusura, quando, quest’unico sopravvissuto ad una serata di nebbia fitta fitta, l’unico che aveva trovata la strada per il bar e non era nemmeno un cliente abituale, iniziò a parlare.
Così:
"La sapete una cosa? E’ che mi fate venire in mente quella volta, tanti anni fa….", bla bla…
E continuò.
"Quel mattino, la scena fissa, di cui tutti gli scolaretti della V° elementare sezione B prendevano visione, contando già ognuno anche i micro secondi che mancavano alla campanella nelle diverse modalità di tempo e di spazio, compreso il vulcaniano e hollivudiano, era così formata: un muro verde pisello acerbo con fughe o di colore rosso mattone, o bianco o verde oliva o giallo paglierino, per mezzo dei quali si datava la data di costruzione dello stesso, avvenuta attorno al 1925, primo restauro 1948, secondo 1960 e prova nel 1970 e definitiva 1985.
V’era poi una presenza di crepe ghiottone e di qualsiasi cosa, causate dal perenne movimento della struttura edificata su un terreno paludoso; con rimando democratico, e quindi a pari altezza, c’erano appesi un cristo in legno ritoccato, a cui era stata levigati barbone, capelli e appiattita la curva della fronte e il naso a punta come il pungiglione delle api, che era il gadget preferito dai destroidi, a fianco, c’era una foto a colori smunti, incorniciata in una telaio a foglie d’orate, del segretario del presidente della Repubblica Cecoslovacca, spesso confuso alla tele con il nostro attuale presidente, entrambi apposti dal bidello "ciona", ex gerarchichino nel periodo dell’Italia fascista, in un piccolo paese del bergamasco di trentasette anime, convertitosi nel sessantotto al socialismo dal volto umano, nonché noto incursionista disturbatore votato a morte, e autore di frequenti attentati immagine alle strutture dello statalismo e del parassitismo burocrate, di cui cristo e foto erano citati al punto 106 del libretto "come diventare perfetti legaioli".
Detto anche "el bidelo mona".
C’era poi un’enorme lavagna trittico, dove sul panello di sinistra v’erano disegnati in gesso bianco molti numeri, tutti dispari, otto formule ed esempi di insiemistica a ovuli, e sul destro schizzi di piante e di vermi in sezione, in gesso colorato, e al centro scritte dalla calligrafia decisa ed esageratamente barocca, inclinata a sinistra, da distante come un quadro di Pollock, da vicino di difficile lettura senza saltare continuamente riga, al che veniva fuori o un rap o una romanza in lingua doc o un insieme di parolacce.
Primo quadro.
Nella scena fissa divenne tutto sfuocato, e prese attenzione, una mano di innocente che si avventurava in mezzo al trittico, ma non toccandolo, più un moscone in picchiata non controllata avvolto dai fumi del mosto.
Essa stringeva un variopinto groviglio di pezze ricucite con si tale perizia che, di primo acchito, sembrava, un prototipo mono dose per famiglia, di super salsiccia già sventrata dal calore della vivace brace e riscaldabile nel forno a microonde. Come l’ochetta per vasca bagno, stretta rimetteva o il verso di una cornacchia o di cane a cui è stata pestata la coda; ogni un fischio da richiamo.
Secondo quadro!
Nella scena fissa subentrò, e tutti si guardò come dal buco della serratura, un occhio! Tipico dello strazio dei propositi, preso d’assalto da preoccupazione manifeste in forma nervosa e tic, con un pensiero dentro, comune allo stato d’animo che, a pari condizioni, caratterizza i momenti topici della carriera scolastica, soprattutto di prostrazione totale, perché è pura fantascienza la storia dell’occhio bionico con macchina fotografica incorporata e traduttore simultaneo da immagine in parole, trasmesse all’orecchio in sequenza da oracolo. Già quindi con espressione a venire del dolente in tutto il viso, e percorrente la via di quella che nasce assieme alle parole "mi dispiace, non me lo ricordo, sono preparato ma quella roba lì che mi chiede proprio non riesco a farmela venire in mente, sarà colpa della varicella o di mio padre che beve…". V’era quindi in tutti una sorta di intreccio dei piani del vedere del soggetto e dell’oggetto, poteva esserci davanti alla lavagna un ferro da stiro, e tutti ci vedevano lo stesso la propria faccia e anche quella di quelli che stavano assistendo.
Un occhio pronto a svenire.
Vennero in suo soccorso alcune parole:
"Cancella! su cancella!"
Entrò nella scena fissa un corpo, ma come quando si scatta un’istantanea con il sole contro. Che appariva comunque assai meno innocente, e cominciò ad agitarsi in una danza, dai movimenti ad esse, prima con volute più e meno ampie, a rallentatore, poi un ritmo in crescendo sino all’isterico. Tutto concentrato nella mano, come la punta di un compasso di gomma molle vicina al fuoco, e al primo contatto con la lavagna ebbe un sobbalzo, come la chiglia di un acquaplano e schizzò sul terzo di lavagna, sul pannello a destra, li incominciò a strofinare, prima un triangolo e poi un cerchio in centro e poi da sinistra a destra e viceversa, e poi a grandi cerchi e poi a piccoli rettangoli e poi trasversalmente e poi su e giù e ancora in ellissi.
Nella scena fissa si alzò un polverone. Grigio chiaro, che avanzava, con sfumature verde e rosso pastello. Dentro si intravide una nera piatta testa, un corto collo che finiva su di un colletto bianco ampio sulle spalle: la prima delle curve. Toccò nasi, altri esserucoli che si tendevano in avanti, come quelli del cane che punta la preda: mano a mano che venivano bagnati da quelle particelle di polvere densa, ognuno con un sì, chi con coraggio, chi con un forte inspiro, chi con un segno della croce, chi con le dita incrociate, chi con una pacchetta alle merendine, si dichiarò pronto, anche a cominciare dal rendere la memoria dell’odore del gesso usato per scrivere le parole date dall’alto della cattedratica erudizione.
La nube scese a terra e la polvere si dissolse piano.
Il bimbetto era bianco come un cavatore di marmo con venti ore di straordinario alle spalle, che ha trovato una vena rossa e una verde.
Uno starnuto, forse due, qualche colpo di tosse da "roseghin in gola" e delle leggere lacrima che spuntavano su alcuni visi, evidentemente allergici al gesso, grandi come quelle che escono dopo un mozzico di un granchio largo poco più di due centimetri, poca roba al confronto di quelle viste dopo aver ritirato il proprio quaderno marchiato di rosso con quel numero che per primo si imparò quale "seggiolino con sgridata a sfondo sociale" (se poveri ringhiata, se ricchi vellutata, ma anche mimata con le mani dai soliti genitori che non hanno tempo per le deviazioni dai progetti fatti sul loro bebè). E sempre elargito con gusto sadico, a volte anche dato secondo quelle regole per le quali ogni tanto si rende necessario ristabilire le priorità e le differenze tra i ceti sociali. La "pista di Le Mans" il voto che ha fatto sentire dei re delle generazioni, più del "io stampatello e maiuscolo con capellino sulla i" che non ha durata e tutti gli impicci che ha il campione in carica. Altri quadri in quella galleria degli orrori umani dove il tempo ha capacità di importanza e rende il fruitore, o insicuro, o ribelle, o conservatore, o potente…
Galleggiò, poi, un fazzoletto, in modo beffardo sfiorava le teste dei pargoletti. Avanzò sostenuto da un veloce passo, un’andatura come quella delle modelle in sfilata con picchi elettrocardiografici da trombosi.
Era vicino alla cattedra.
Con movenza a lui consueta, la piccola iena, un gracile individuo poco più basso di un metro e trenta, posò il suo fazzoletto sopra la cattedra e schizzò via veloce, non prima però di protrarsi in mille ossequio con un gran inchino finale, a più bis.
Sculettava.
L’anziano uomo stirò con le mani il fazzoletto e vi mise sopra i suoi occhiali; avvoltoli nella stoffa, cominciò a strofinare il cotone sulle lenti, come un prestigiatore.
La tempesta finì.
Un’altra mano, molto più navigata della sinistra in fatto di prendere, acchiappò un gessetto bianco, lo spezzò in due parti e con un gesto di stizza, si alzò a braccio teso sopra la testa con le spalle strette sulle orecchie, proprio nel mezzo della lavagna ben ripulita dai residui di altre sofferte interrogazioni.
Ci fu per un attimo un qualcuno che intuì nelle forme e nelle pose, dell’ironia e con qualche sorriso di troppo, lo disse al compagno di banco e sgomitando incominciò a indicare e a mimare miniaturizzando nella mani i movimenti del veduto, soprattutto quelle pose che nella situazione creatasi ricordavano le gesta del trionfo. Alcuni, il quel micro mondo che è la scuola dalla parte degli scolari, gli facevano il verso, tra lo sportivo che esulta per essere arrivato primo o l’apache con scalpo in mano o miss Italia dopo l’incoronazione.
Si sentirono ripresi, forse, perché subentrò in tutti un senso di colpa, innescato dalla sovrastante presenza della nera lavagna che appariva ora nella sua interezza con davanti un malcapitato, che riesumavano immediatamente ricordi non facili. Le ghignatine vennero rimandate alla strada o all’intervallo. Tutti si azzerarono nelle emozioni e i visi divennero freddi: a tutti medesima sorte, c’è chi la scapola e chi dovrà pensare all’ultimo desiderio.
La lotta per la sopravvivenza entro nella scena fissa, ma più come si guarda arrivati ad un certo punto della mostra la firma e ci si accorge che è la stessa su tutte le opere.
Gli occhi di tutti si aggrapparono all’improbabile vittoria e iniziarono a far il tifo per il più debole, colui che era privo d’ogni speranza, incoraggiandolo: la sua riuscita e la sua durata significava certamente la salvezza per molti.
Aumentava al contempo un senso pregante di sventura imminente, il peso di una sua sconfitta trovò ragione di esistere e crebbe assieme al crescente risaltare delle striature tinte di rosso, sparse a caso sul faccione di Oreste Bronchioni, ultimo della classe in tutto, persino il posto occupato dal suo banco messo in fondo dell’aula a forma di piramide la cui base era il muro della lavagna… Scuola Elementare "FELICE SBRONZOSKY", artista di cui a giorni si sarebbero celebrate le feste di ricorrenza dei trentanni dalla sua scomparsa.
Poi il silenzio fu veramente totale.
A tal punto scese che in classe si poté distinguere nettamente ogni rumore, tanto che il timido sospiro degli alunni e il lento strofinio del cotone sulle lenti del maestro si misuravano concorrendo quale deterrente dell’attenzione.
Il maestro infilò gli occhiali una prima volta, li tolse, pulì una macchiolina su una lente e li mise una seconda e anche una terza volta, interponendo alla pulizia delle occhiate di traverso condite d’espressioni una volta grottesca, una volta un preludio di santo inquisitore prima della tortura e una volta con un ghignetto dal mento allungato e una guancia fiera.
E giunsero le prime parole:
– Bene, bene… bene…
Oreste Bronchioni, l’interrogato, un po’ per risollevare le sorti dai funesti presagi, un po’ per dar sfogo alla eccessiva salivazione che lo aveva colto senza crakers, infilò l’indice della mano destra in bocca e, dopo averlo succhiato, si intestardì con il polpastrello del medesimo spennellando di saliva i graffi sulla nera lavagna;
– Ieri, prima che giungesse la campanella, diedi un accenno al tema delle festività…
L’uomo, una barba da alpino, autore di ignobili pause, contornò il suo viso con un paio di occhiali dalle lenti linde e splendenti e luccicanti come un lago ghiacciato con il vento dell’est.
Si alzò e camminò su e giù tra i banchi;
– Credo che siano stati informati della cosa anche gli assenti…
Il maestro degnò una sbirciatina a "la piccola iena".
Costui, nutritosi di nuova preda, accese la sua specialità: a metà tra un sorriso durante un corteo funebre e la bocca di un goloso incallito che s’è pappato una pasticceria e quattro camicioni da lavoro perché sapevano di crema allo zabaione.
I suoi compagni videro spuntare i suoi lunghi denti incisivi, i suoi grassi capelli vibrare. Costui disse con la straconosciuta dolcezza:
– Sicuro, sicuro, sicurissimo, signor maestro.
Il fazzoletto finì nelle mani de "la piccola iena", che si dimenava né più e né meno con mossette del solito leccone.
– L’ho detto io agli assenti, allievi Starlabazzi, assente per indisposizione, e Malumoncio, assente perché il padre ha scassato la sua automobile, preciso, preciso, precisissimo signor maestro…
La piccola iena, rideva come una dama inglese all’ora del the, tra una gallina imbriaca e un cane in amore femmina che si crede maschio. Ciò ravvivò l’odio che i compagni nutrivano nei suoi confronti, appena si presentò in classe il primo giorno, di cinque anni fa, stringendo la mano a tutti con la mano foglia come una lady grassa e raccontando a tutti le gesta dei suoi parenti fino a cent’anni di storia riservando di andare addietro nelle prossime visite.
– Ottimo! bravo Pestalozzi: disse il maestro e con una mano toccò la spalla della piccola iena.
Tutti in classe guardarono il perfido Pestalozzi, sapendo quanto questa azione del maestro significasse per la sua ingordigia, per la sua insaziabile fame di lodi.
Pestalozzi, più che mai contento, mostrò a tutti il fazzoletto come un trofeo, con gli occhi chiusi e il collo teso e il mento infossato nel collo, il sopracciglio destro inarcato: un nuovo pezzo si era aggiunto alla sua collezione reliquiario, uno nuovo da incorniciare e da appendere bene in vista alle pareti di casa sua, un’altra testimonianza del suo darsi da fare per continuare la dinastia e dimostrare che essere lecconi oltre che un fatto genetico è un fatto di ambiente. Ogni angolo di casa Pestalozzi era pieno di reliquie scolastiche, un’infinità di piccoli altari sparsi qua e là, un po’ dappertutto: in uno c’era la penna, in un altro i sette fazzoletti da lui dati al maestro di giorno in giorno quando il maestro s’era preso il raffreddore; in uno pure un quadretto con in mezzo un pelo della barba del maestro. Ma la chicca era sicuramente rappresentata dal maxi collage in salotto: al centro c’era il foglio stropicciato della punizione toltagli, a contorno una lode e a destra in fondo la firma estesa del maestro su un bel nove con lode di colore azzurro.
E l’odio salì, ma il maestro ne deviò le sorti:
– Penso sia inutile ripetere quanto sia importante questo giorno per la classe?
Le venticinque teste, meno quella dell’interrogato, annuirono in perfetta sincronia;
– E credo che sia chiaro per tutti quanto piacerebbe al sottoscritto che la classe si lodi di una superba prova.
E due allievi scesero con la testa sotto il banco.
– E’ chiaro, vero?
La mano del maestro Orlando, appuntitasi nel dito incancrenito dall’artrosi, lisciò le teste di alcuni pargoli, come un contadino mentre falcia il campo del trifoglio. La voce del maestro si mescolava con toni diversi, a volte era alta, a volte rauca, altre soffocata nello stomaco.
Gli allievi, conoscevano bene la mimica del maestro e nel modo sapevano distinguere ogni sfumatura per capire il suo umore; l’avevano imparato così bene che ci trovavano degli adeguamenti comportamentali quasi spontaneamente. Se il maestro, alla prima ora, rimaneva seduto e prima di fare l’appello sfogliava svogliato e ripetutamente il giornale, era segno che alla sera prima era stato a giocare a carte con gli amici delle ore piccole e aveva perduto. In classe, in tal caso, tutti dovevano ripassare o far finta di farlo.
Se invece il maestro entrava in classe borbottando con intermezzi di risatine e versetti isterici, voleva dire che era d’umore allegro, e allora ci si doveva preparare e si tirava fuori la colla e le forbici e i fogli colorati, poiché in quelle mattine il maestro ricordava la sua gioventù, e aveva pensato a quanto, prima di sposarsi, amava passare il tempo pensandosi un gran inventore.
Se invece camminava nervosamente, e camminare era cosa poca gradita al maestro, era un chiaro segno che l’Orlando era furioso e che niente serviva per placare la sua ira. Capitava raramente, solamente quando la moglie, Elibetta, una donna molto gelosa anche di un’innocua sbirciatina dal ginocchio in giù, accompagnava il marito a scuola, per dar delle verifiche ai suoi sospetti.
Oggi era una di queste giornate e l’Orlando era furioso, più che furioso, s si pensa che le due robe nella vita a cui l’Orlando teneva di più erano la serenità della moglie e l’affermazione delle sue intuizioni: un mix di droga personale.
Il maestro urlò prendendo in prestito i toni al vecchio attore melodrammatico che, giunto all’ultima commedia della sua carriera, cerca di dare il meglio di se stesso e del suo lavoro in una interpretazione magistrale, ovviamente nel ruolo più caro:
– E badate bene piccoli incoscienti che quest’anno il primo premio lo voglio. Lo voglio bene in vista su questa mensola!
Poi rivolgendo lo sguardo a Bronchioni:
– Mi auguro che non ci sia qualche mente bacata tra voi, un qualcuno che fermi il cammino della vittoria…
Il maestro fissò la scolaresca come un generale mentre scruta l’orizzonte immaginandosi la battaglia decisiva:
– Capito!
E si rimise a sedere. Reclinò la testa da un lato e guardando con aria sconsolata una mensola affissa sul muro di fronte alla cattedra, disse, in un crescendo:
– Odio… odio… Io odio arrivare secondo… sempre secondo. Odio questo argento… Io voglio l’oro!
E avere l’ambito oro significava possedere per un anno il primo premio, essere risultati meritevoli, a giudizio di una giuria composta dagli azionisti proprietari delle quote di maggioranza della società finanziatrice della scuola,: "… Per poesia, disegno o pittura, dramma teatrale, saggio, o tema, e altra arte purché riconosciuta al mondo, che dia lustro alla meravigliosa opera del nostro concittadino e grande artista, Felice Sbronzosky. Al vincitore di tale concorso verrà consegnato il primo premio "IL PENNELLO D’ORO" targa in oro, data a chi saprà e ha saputo perseguire le orme traendo spunto dal grande insegnamento e dalle arti del nostro benemerito concittadino… A te, esimio Felice, con gratitudine per quello che hai saputo rendere al mondo con l’eterna bellezza contenuta nella tua opera…".
Tolti i ringraziamenti vari e qualche spruzzatina di commenti, nonché riagganci con altri artisti o a fatti di attualità a luce rosa, era questo discorso proferito, con rintonante drammaticità da teatro greco rappresentato con le ballerine del Moulin Rouge, dal Presidente della giuria a termine della sessione dei lavori; discorso ora ripetuto a memoria, a parole mangiucchiate a denti stretti, dal maestro Orlando, a ricordo dei venticinque anni che aveva dovuto presenziare alla cerimonia di chiusura facendo buon viso e bile in aumento.
– Per lei, caro maestro Orlando, una riconoscenza per la sua tenacia e per la sua onesta perseveranza che l’ha contraddistinta in tutti questi anni…
Si sappia che Felice Sbronzosky è famosissimo in tutto il mondo per aver "partorito" dopo molte sofferenze un solo quadro in cui si raffigurava la sua fidanzata, una certa Apollonia Dermont, morta per troppo amore, durante un coinvolgimento amoroso con lui. Si narra che lui le cavò gli occhi e dopo non essersi dato ragione per anni per non averla seguita, la dipinse con intenti imitativi, ma siccome non sapeva disegnare ne venne fuori un obbrobrio che lui titolò "La mia dolce Apollonia". Ma lo mostrò a tantissimi con effetti catastrofici per il suo morale già in profondo abisso. E poi morì in circostanze strane: lo trovarono che indossava la sua biancheria intima, l’aveva messo sotto un automobilista. Ebbene in quel quadro ci sono gli occhi di lei e si narra che il possessore conosca che si possa anche morire per troppo amore, ma che difficile pratica, e quindi con conseguenze catastrofiche; così diventa a sua volta, dopo aver scopato come un pazzo tutto il papabile, un morto vivente incapace di morire per troppo amore ma sapendo come si fa. Si cava gli occhi e si fa un autoritratto e mette i suoi occhi in quel dipinto. Così tuttora esistono duecentocinquantatrè quadri già best seller per la critica come "Troppoamorismo". Non c’è modo di fermare la catena, perché è talmente salito il prezzo delle opere e soprattutto quella di Felice che un collezionista sborsa una cifra talmente spropositata per acquistarlo, che prima o dopo il possessore incappa nel desiderio di vedere il capolavoro. Guarda gli occhi ed è fregato.
Nella scena fissa, il maestro Orlando, in quella storia della scuola da parte del maestro, mimava facendo sembrare a tutti che stesse pensando a qualche domanda tranello.
Pochi hanno un’idea di quanta energia necessiti per reprimere i desideri e l’istinto di distruzione mentre, porgendo la mano al vice presidente di turno, il maestro si sentiva posare sullo stomaco l’immancabile malloppo rivisto ed aggiornato delle opere di Felice Sbronzosky e nell’altra mano l’eterno secondo premio, accompagnato dalle odiate parole:
– Complimenti, maestro Orlando. E ora signori e signore è giunto il momento da tutti noi molto atteso…
E il primo premio finiva come sempre al collega del maestro, al Tentori. E che farne della TAVOLOZZA D’ARGENTO in tutti questi anni, se non rivoltarla ogni giorno come il cartellino d’una bottega prima d’aprire e di chiudere?
– E allora, caro Bronchioni, che ci racconta?
Il dito del maestro Orlando s’era fermato davanti alla punta del naso a patata del grassoccio allievo Oreste; costui presa opportuna correlazione e senza alcuno sforzo, riempì lo spazio tra le striature rosse: sul suo viso si formò con uniforme omogeneità un rosso mattone carico.
Oreste Bronchioni non era un bambino timido e, meno che meno, facile a spaventarsi, nemmeno oggi, con davanti agli occhi la smorfia da leone sdentato del maestro, al quale oltre tutto c’era abituato a farci cattiva figura.
Per Oreste Bronchioni, è oggi piuttosto un giorno particolare, diverso dal solito: il giorno del suo ingresso nella moda.
E forse tutti rammenteranno quanto sia insopportabile indossare un paio di scarpe nuove, magari di vernice, come quelle che aveva ai piedi Oreste, comperate magari di fretta, magari perché era l’ultimo paio rimasto e ci sarebbe voluto del tempo prima che ne arrivassero delle altre, e magari di un numero più piccole, ma senza farci troppo caso comperate, almeno lì lì, volute a tutti i costi solo perché tutti i coetanei ce l’hanno e voi no. Scarpe nuove e primi sorrisi di un uomo di mondo…
Finché ci si muove è una pacchia, ma se si sta fermi sono dolori. Ai bordi del piede, sotto, dietro, sopra le dita, anche le caviglie, un prurito alle gambe, e la schiena che sembra di gomma secca, e il male che sale sino alle orecchie, che prende anche l’occhio e scende sui denti per ritornare alla tempia: si sta tanto male per un paio di scarpe sbagliate, molto più di una cotta non andata per il verso giusto…
– Beh, Bronchioni! Vogliamo cominciare bene?
L’allievo Oreste si voltò alla lavagna e prese la posa della statua greca.
La sua mano era alta, a pochi centimetri dal bordo della lavagna; l’altra era ben piantata sul rotondo fianco. Il petto sgonfio nell’inutile tentativo di arrivare più in alto delle effettive possibilità fisicamente concesse.
E il mal di piedi saliva, saliva. Il primo acuto si fece avanti e un piede si inventò la danza sulla propria misura: la punta si prodigò nel tentativo di raggiungere, serpeggiando lungo la gamba, il punto più alto dove il dolore trova pace e sfogo nella circolazione del sangue libera da impicci e prigioni, tra i calzettoni bianchi e i pantaloni all’inglese. Poi l’altro piede che, con più audacia, si strofinò come un’isterica gatta in calore contro il polpaccio. Ancora: un piede sopra l’altro e viceversa. Tacco punta, punta tacco; piegamento di lato come una barca a vela che scuffia, prima su una caviglia poi sull’altra; poi i due piedi assieme in un movimento che ricorda i cavallerizzi provetti aggrappati alla schiena di un cavallo-elefante. Infine, avanti ed indietro delle orecchie che seguono il ritmo dei movimenti su e giù della colonna vertebrale…
– E via, Bronchioni! Avanti… Su! Ffff-fe-lllll-Feli- ccc-eee… Poi tutto con disordine e poca sopportazione.
– Che faceva il Felice?
Di nuovo da capo, la stessa scena detta poco fa.
– Sì! Sbronzosky era un… era un…
Se si è davanti al buio e non si ha a mente dove possa essere la via di uscita, e capita di agitarsi e sembra che tutto diventi ancor più nero, che si fa?
C’è chi si mette a sparlare per cercare di inserirsi nei binari della soluzione possibile. C’è chi fa finta di essere un eremita e di avere una formidabile intuizione per cui se tace ora è solo perché sta aspettando il modo migliore per illuminare anche ai comuni mortali. C’è chi comincia a cancellare e cancellarsi più del concesso. E chi chiude gli occhi sperando di trovare la pace in un buio finalmente diventato buio…
Sorte volle che Oreste Bronchioni, ultimo della classe e primo della lista, chiuse gli occhi e, pensando dapprima alla pessima scelta in fatto di scarpe, prese un sopito respiro, al quale seguì un leggero ronzio. A poco a poco il corpo di Oreste scese lentamente su se stesso scivolando lungo la linea bianca che si andava formando dalla punta del gesso rimasto ben impuntato contro la lavagna. Mise, poi Oreste il braccio sotto la testa e si addormentò profondamente, senza stupire nessuno: tutti in fondo sapevano che Oreste non era portato per la geometria…"
Erano le sette e trenta e qualcuno gridò:
"Si dirada, si dirada: la nebbia non c’è quasi più!"
E tutti ce ne andammo, ma senza salutarci.

Ora teneva in mano un piccolo bicchierino, uno che sarebbe stato bene in una casetta per le bambole, uno per "mamma casetta".
Avevo quasi voglia di piangere.
Mi disse:
"Vuoi che smetta?"
Feci no con la testa.
"Te l’ho detto… costa caro…"
Avanti, avanti: dissi con le mani.

Giancarlo Gandini



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