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Il vendicatore degli atei

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IL VENDICATORE DEGLI ATEI

Se ne stava buona, lì da qualche parte, per sei giorni della settimana, ma al settimo, senza alcuna avvisaglia, d’improvviso, in un niente, prendeva il potere delle loro menti e davano in escandescenze, proprio come dei veri matti.
Non erano schizofrenici. Nemmeno dei disoccupati oltre quella soglia che porta all’isolamento sociale e che induce a rapire la figlia dell’ultimo datore di lavoro. Né erano in preda a delle turbe psichiche, con qualche maniacale inclinazione che, ereditata assieme al codice genetico, si sfoga nel solo possedere, di generazione in generazione, sino a tutto il guardaroba femminile, fino ai brandelli di pelle che sanno di donna. E ognuno anche familiarizzava, e da molti anni, con quel genere di affetti che si consolidano unicamente davanti all’altare e si consumano nella routine e nei ciclici accoppiamenti annullanti.
Era la specie più tenace e più longeva e più presente, erano animali da bar, gente che, sopra ogni cosa e nella maniera più assoluta, non sopportava un giorno senza una puntatina al loro solito bar. E quando c’era il turno di chiusura capitava la tragedia.
Terribile!
Ho visto alcuni gettarsi e rotolarsi in terra e calciare l’aria più d’un posseduto dal peggiore tra i Belzebù. Altri mutare completamente quell’istinto per la razionalità, che gli era riconosciuta quale loro unica dote per la socialità, e li vidi vagare per le strade della città, solitari come degli squali bianchi con un boccone di traverso e a digiuno da sette settimane, in un struggente e coinvolgente desiderio di sopravvivere e di passare oltre quelle terribili ore di crisi di astinenza. Tutti, che gli altri giorni relazionavano che con le tre stesse striminzite parole, come un telegramma dei giorni peggiori, sulla meteorologia e sul dramma del post femminismo, in quel giorno chiacchieravano a lingua sciolta, dicendo più cavolate di tutte quelle che saprebbero dire assieme tutti i navigati presentatori di quiz televisivi privati delle interruzioni pubblicitarie dal loro programma.
Eccetto uno che era l’esatto opposto.
E tutto solamente perché il bar era chiuso.
Tutt’altro che dei pericolosi. Con certi anche ci si divertiva. A prescindere altri era meglio scansarli in qualunque giorno. Pochissimi incuriosivano e due soli ispiravano, tanto che c’erano nate delle storielle di quel modo di dire e di fare "fuori dalla norma" che rende vivo l’interesse per una città.
Quale fosse la molla era certo!
Bastavano alcune parole, combinate in un certo modo e in un particolare tono di voce, e, al pari delle formule magiche che fanno volare sedie e trasformavano i fiori in serpenti, succedeva il patatrac: tutto il loro equilibrio, l’ostentata armonia, andava in vero subbuglio.
Incontrollati, irrefrenabili, devastanti!
Come quella volta che sbagliai giorno e mi ritrovai con l’orecchio incollato alla porta del bar. Con me c’era una coppia acerba con una bimba già da pensione. Ai loro sguardi dissi: "donna delle pulizie", dando nel mio indicare il significato ai rumori che sentivo giungere dal di dentro.
Risultato? Mi seguirono tutta la notte, parlandomi dei dosaggi di Perlana e delle convenienze di qualità-resa-tecnica di duecento vari detergenti, della perfidia della polvere e della cera per la carrozzeria più buona per le Opel. E alla fine sapevo tutto, anche che il prezzo al chilo dei biscotti del Mulino Bianco è più caro della stessa quantità del ricercato tartufo, e su chi lo fa meglio e di più. E guai a salutare, perché ricominciano.
"Latte materno" sembra produrre invece degli effetti regressivi e solitudine vera, ma dà da lavorare agli analisti più del complesso di Edipo, oltre che incentivare il mercato di centri per il rinfoltimento per capelli e delle vitamine per la crescita istantanea delle unghie. "Tutto chiuso", fa ululare gli ultranovantenni ed elettroshockare le imitatrici in carne e ossa di Barbie.
Ma fui anche più fortunato.
Un giorno, sempre perché m’ero scordato, trovando un altro come me davanti alla porta chiusa, e memore, gli dissi prontamente "domenica mattina".
E stavo per scappare.
Quando questo ometto, più etilizzato di tutti gli altri giorni che lo vedevo seduto sempre nello stesso angolo, intento a cronometrare la chiamate delle "ombre" di vino rosso, si mette a far la pipì sulla porta del bar, come un cane maschio.
E mi dice:
"Lo sa che io ho conosciuto Zorro?"
Curiosità totale!
"Fu una domenica mattina…"
Fui tutt’orecchi!
"Solo vento. Ordine e silenzio tutto attorno. Foglie e carte si alzavano in mezzo a quella piazzetta, quella là giù. La vedi?"
Dissi sì, sì
"Quella è la piazzetta del vento. Un ragazzo, un fervido inventore delle situazioni, là in mezzo ci voleva mettere un monumento dedicato al vento: dei tubi, quelli che si usano per le fogne e per l’acqua, gialli e arancioni e grigi, con tanti fori e con in cima delle curve da raccordo e di varia misura, tanti come in una foresta, fitti fitti. Il vento ci passa in mezzo e viene raccolto dai raccordi, e suoni, come quando si soffia dentro una bottiglia e a seconda della forma si sente un suono differente. Se di vento ce n’è poco, il suono esce del primo buco, se soffia più forte da tutti i buchi.
Capisci? Una sinfonia del disordine, una toccata e fuga del vento, una sinfonia non voluta, e quando il vento non c’è si sta lì ad aspettare che venga, come ad aspettare il direttore d’orchestra senza sapere che cosa si ascolterà oggi."

Ero in apprensione! L’ometto mi disse di avvicinarmi e di offrirgli da fumare e tenendo la sua mano sulla mia spalla, con il braccio teso e lo sguardo fisso sulle mie scarpe, con la sigaretta in bocca sempre dalla parte opposta della fiamma che gli offrivo, disse con un tono di voce come se avessi tirato lo sciacquone:
"E, siccome a quel ragazzo piaceva molto la filosofia e aveva dovuto iscriversi a malincuore ad architettura, aggiunse scappando: "come un attore che si insinua laddove l’abitudine ha il sapore amaro della noia e ci annuncia di tenere duro, che presto finirà, che nel ciclo della natura esiste anche la sopportazione e l’esasperazione del non vedere mai…"."

Fiamma del mio accendino e la sigaretta si toccarono. Una fiammata, due schioppettii, e la sigaretta era già tutta cenere, il fumo tutto dentro i suoi polmoni. Ma non cambiò colorazione in viso.
Feci "toc-toc" con le nocche sulla porta del bar e il fumo uscì da tutti i suoi buchi possibili. E mi chiese ancora da fumare, con due dita gialle, davanti alla bocca. Continuò:
"Lui sì che era diventato veloce e imprevedibile come il vento, tanto che nessuno dei suoi amici riuscì più a salutarlo: appena lo vedevano, lui schizzava via, proprio come il vento."

L’ometto si stava per appisolare, con tutte le braghe bagnate ed emanava un terribile tanfo come da una cantina dove c’è solo umidità. Così dissi "domenica mattina".
Ripisciò sulla porta del bar come prima, bagnandosi ancor più:
"Un vecchio pensionato che stava al primo piano dove abitavo io quando lo incontravo per le scale, mi diceva: "Domenica, oggi è domenica! Una giornata che non vuol passare mai, una giornata senza tempo, senza sereno, variabile, tempestoso, tutto statico. Domenica, maledetta domenica! Tutte le cose vogliono restare al loro posto e più le guardi e più desidereresti la rivoluzione, o almeno il vento. Sarà quel che si vuole, si dica anche che da un’ordine si passa ad un’altro ordine, ma è bellissimo il momento di ribellione. Dire no, dire basta, dire forza, dire coraggio: quante volte lo dici al giorno figliolo? Quante volte al posto di quel non importa?".
Era stato un bravissimo cameriere e aveva lavorato per quarantacinque anni nello stesso bar, a cui lui aveva donato tutta la sua vita per amore dei clienti e per amor di servitù, come Faust del famoso patto con il diavolo, non aveva avuta una ruga e nemmeno un capello grigio. Finché non giunse il suo primo giorno di pensione: in ventiquattr’ore diventò così vecchio che il padrone di casa chiamò i carabinieri, e lo arrestarono. Stette in galera per un mese e mezzo, perché non riusciva a dimostrare la sua identità. Finché mandò a chiamare cento dei suoi clienti ed davanti a loro elencò tutto quello che ognuno prendeva a seconda dell’ora o della compagnia e dell’abito. All’ultimo, dissero tutti in coro: Armando!
Quello sì che era un bar che sapeva gestire i suoi maledetti turni di chiusura: l’unico che li spezzettava, la prima parte della domenica, perché tutti i clienti andavano a messa, e il lunedì pomeriggio, perché i negozi di vestiti erano chiusi e non si poteva fare shopping, e tutti i clienti di quel bar erano dei shoppinari.
Ora Armando, curvo e così increspato, e talmente secco che si mimetizzerebbe in una vigna, quando l’incontro sa solo sbiacicarmi: "Io amo solo il vento"."

L’ometto mi era addosso, mi rigirava come se abbracciasse il suo cuscino. Conscio delle possibilità a me sfigate, ridissi: domenica mattina!
Fece solo quel movimento e non mi bagnò. Ma, importante, continuava a parlare:
"Fu una domenica mattina. Mi decisi: scendo in strada a correre dove il vento va. Così mi dico.
Ordine, ma rumori, il vento si rinforza, una foglia tra i capelli, un foglietto che mi si posa vicino al piede, qualcosa di scritto, ma una folata lo fa volare via.
"Aiuto, soccorso, non resisto più! Se c’è qualcuno mi soccorra", diceva quel pazzo di Erminio, il nostro barbone, la notte tra il sabato e la domenica. La nuova resistenza? Resistere all’indifferenza o alla monotonia del cianciare, ovviamente.
"Io amo solo il vento": così c’era scritto in quel foglietto, e non era un bacio perugina."

Dissi tre volte "domenica mattina" come un palloncino che si sgonfia. Tutte le tre volte l’ometto si improvvisò quel cane che c’aveva dentro, coi suoi bisogni impellenti e incessanti. Ma parlava e non teneva più liquidi:
"Correvo. Come un passerotto troppo grasso per potersi librare in cielo, ma correvo appresso al vento, su e giù come trottola perenne. Una sciarpa bianca mi fa compagnia per un po’, poi si impiglia in una crosta di intonaco umido, grande una giacca taglia cinquantasei. Sventola come una bandiera bianca. In quel punto il vento si fa sentire e non è musica.
"Lasciateci in pace! Aiuto ci vogliono sfrattare! Aiuto ci vogliono più belli e più ricchi e con più benessere… aiuto!" così si sentiva.
Il vento ha anche questa capacità: ti rattizza la memoria. Quelle parole le ho sentite da una donna grossa come un tacchino da competizione, con tutto il suo avere sotto il braccio, che si staccò da un gruppo di gente incatenate alla base di una gru, e con me si sfogò e quando non sapeva spiegarsi bene andava nel gruppo e prendeva un cartello e me lo fece leggere, dicendomi:
"L’ha scritto uno che di vento se ne intende sa?".
C’era scritto: E’ giusto che si facciano i soldi? perché dovremmo mai accettare un simile concetto?
Chissà com’erano le voci di chi abitava prima qui? Perché non ci hanno restaurato anche le voci che abitavano in questo quartiere un tempo, prima che salisse il costo del mattone e vendessero le case a quelli che s’erano "fatti i soldi". Perché non hanno pensato di registrare e diffonderle, di tanto in tanto, da qualche altoparlante vicino ai reperti storici, una colona, un capitello, una finestra bifora, messi in risalto dalla "restaurazione" che ha reso tutti belli come tante pandorine di natale, color cacca tendente al rosa smorto, ma marmorei."

Da parte mia, io m’ero oramai tramutato in una flebo, lentamente e sempre con lo stesso ritmo ripetevo, appena l’ometto tirava fiato e pareva desistere dal suo racconto, "domenica mattina". Lo rivitalizzava. Ma era la faccenda di Zorro che mi incuriosiva.
"All’ultima conferenza a cui ho partecipato, un tipo, dopo aver strappato il microfono, s’è messo in piedi sulla tavolo, mandando i pezzi cento bottiglie di acqua minerale e trecento penne bic, e tutto in un fiato ha urlato: "Perché tutto deve risaltare nell’impressione, perché la nostra storia è solo impressione? E’ questa la nuova avanguardia artistica? Il restauro? Meglio non dirlo, che se ci sentono mettono su un corso di restauro delle voci, per i geometri.
Via dal restauro, via prima che mi mettano in un angolo in una bella colata di cemento, fisso in una emozione, l’unica che si ha avuta prima di cominciare ad essere quel che si cerca di essere…"
.
L’hanno portato via di peso e non c’è stato verso di spiegargli che quella era una tavola rotonda sulle specie di pini presente nell’altoVeneto e che dell’eminente ed esimio Beltraminoso con la sua relazione sul "Restauro e città" si teneva in un altro palazzo e tra due mesi. Lo sfinirono a randellate di rami di pini di diversa specie."

Senza alcun dubbio all’ometto oltre che all’imitare il cane s’era anche specializzato nel divagare. Così dissi "domenica mattina" sette volte e prima d’ognuna tutti i nomi dei gestori e dei camerieri e del corvo del bar. Lo risuscitai, in tutto:
"La sciarpa bianca sventolava ancora, e mi dava il malumore questa idea di resa che mi evocava. Dissi tra me: se mi ci metto posso arrivare lassù, posso strappare quella bandiera bianca. Convenienza e volontà, qual è la differenza, oramai?
"Aiuto, soccorso, non resisto più! Se c’è qualcuno mi soccorra": l’ha detto un milione di volte quella notte il nostro barbone.
Stornato nella mia coscienza ebbi il desiderio di un po’ di pace di staccarmi dal vento, almeno per un po’, ma il vento è troppo bello; è per questo che solo la gente di mare ha delle cose da raccontare. Là, delle pesanti assi intarsiate, un portale, il muro massiccio, un ingresso che viene scosso da una forte folata di vento e dietro un canto… più una nenia. E poi il silenzio, anche del vento.
Sono io ora il vento.
Toc toc, chi c’è là dentro?
I vestiti si gonfiano, il ciuffo sugli occhi, allargo le braccia e toc toc, chi c’è là dentro? E gonfio le guance e soffio e do il mio contributo alla sinfonia del vento.
Il portone cedette, si spalancò. Sbandava dai cardini, un cigolio… to’, dentro c’è la messa!
Okay uomini e donne e infanti dell’altro popolo, facciamo una tregua: io sono parte del vento e sono qui perché così ha voluto il mio grande amico: così dico col pensiero a tutti quelli che girarono la testa e mi guardavano.
Entrai.
Giro l’angolo e i miei abiti si sgonfiano, e come un sacchetto di plastica nel quale si è portata della carne macinato-misto per tre ore con più quaranta gradi all’ombra, rimando tutto il mio umore: basta lasciarmi qui così come sono e non faccio vittime nel popolo di chanel.
Okay uomini e donne e infanti dell’altro popolo, facciamo una tregua: guardo un po’ e poi me ne vado. E loro si girano. Ma non per molto.
Le ante del portone sbattono ancora, superano il limite, un cigolio sinistro, un rumore forte e la millenaria costruzione trema.
Guardai le canne dell’organo con ispirazione, un uomo ne è il loro timoniere, ma il vento lì non arriva, perché il vento non sa arrivare negli angoli, ne sono sicuro perché se fosse anch’io scapperei là, ora. Lontano da tutti questi occhi che me ne danno la colpa. Ma di che cosa?
L’uomo al timone dell’organo, si sveglia. Tra me e l’altro popolo è tregua, sono uno di loro, sono sgonfio come un sacchetto dove il vento non va.
Il portone sbatte, con ancor più veemenza, poi un crac.
Guardai.
Un quadrato del portone, un pezzo in bassorilievo che raffigura un Gesù cristo, ma tozzo nella forma e di grossolana fattura, è caduto in terra. La via crucis, l’ultima fatica prima della ricongiunzione di dio con l’uomo, il perdono perché si è voluto attingere a quell’albero della conoscenza del bene e del male più che mai proibito, la fine del capriccio umano e l’inizio del perdono divino…
Mario il ciabattino diceva un sacco di volte: ma, se, quantunque, tuttavia, purché sia. E un chiodo si impiantava sulla suola d’ognuna. Quando aveva finito guardava la vecchia suola e diceva: perché tutti questi dubbi sulla salvezza? Tre chiodi e due ladroni e un peccato minore e una e vergine e una donna pentita che piangono e l’ultima tentazione e la voglia di ritornare dentro per quella vagina da cui nasce il tutto, a ritroso nella vita sin dagli albori e la nostra morte il noioso specchio di ciò che si è seminato, ma per raccogliere. Ma è la nostra esistenza un mero pentimento?".
Non ho mai capito se a Mario non piacesse il suo lavoro o se dava dei consigli a me che giravo solo con scarpe dalla suola di gomma."

Oramai "domenica mattina" sortiva anche in me degli effetti, mi stavo strappando uno a uno i cappelli, masticavo gomma americana senza averne in bocca e pensavo a quella volta che Luisa mi disse che me l’avrebbe fatta pagare cara, che m’avrebbe menato. E siccome era alta venti centimetri più di me e la sua amica faceva tre volte il mio peso e sua sorella era stata arrestata per aver mandato all’ospedale il marito, io cambiai scuola e sport e giro d’amicizie e andai a vivere con la nonna in un’altra città, guardando solo le piccolotte. Ma credo che Luisa non l’abbia mai dimenticato.
L’ometto mi baciò, lavandomi tutto il viso. Parevamo due contadini provenzali ad un ballo di fine raccolto.
Ma parlava:
"Okay uomini e donne e infanti dell’altro popolo, siamo una tregua. Pensavo solo a Mario e a quanto era bravo a fare il funerale alle vecchie suole.
Tutte le teste si girarono e tutti si alzarono in piedi e poi seduti con lo sguardo tra le gambe. Il timoniere si agitava sui pedali e non guardava le sue mani, ma la porta. Era il sacrestano Colla, naso rosso e vene del viso che scoppiano in tanti capillari come gerani ben concimati. Beveva come un’intera osteria, ma non steccava mai una nota. Però non cantava perché la sua lingua era rosa dall’alcol come una roccia dalla salsedine. In compenso rideva molto in silenzio.
Colla si guardò attorno, muoveva la testa come se gli ronzasse attorno un moscone. Guardò la porta, bloccò all’improvviso le mani e tutti si guardarono in faccia ma poi scrollarono le spalle e dissero "amen". Colla era fisso e bocca aperta, come uno scolaro a cui la negligenza è più familiare che chiedergli il colore del suo grembiule. E poi guardò il parroco, Don Cisco, in servizio in quella chiesa da quattro generazioni ne aveva visti tanti di fedeli in vita sua: un ricambio capace di far fare fortuna a venticinque agenzie di viaggi, otto salumerie, nove ristoranti da duecento coperti e ottocento tabaccai. L’unica cosa che erano resistite nella sua parrocchia per tutto il suo inservizio erano le sue due tonache, che erano perfette, lucide quanto basta e con i fili tutti originali. Solamente, che di generazione in generazione, soprattutto con il cambio delle perpetue s’erano accorciate e ora, come erano più della gonne alla moda, gli arrivavano una spanna sotto le ginocchia. L’estiva era leggermente più corta. Don Cisco aveva i piedi piatti e quando si camminava con lui bisognava stargli un metro distante perché si rischiava di sbatterci la testa: dondolava! Ma di generazione in generazione, da quel lontano suo entrare inservizio, la sua chiesa s’era trasformata in una reggia.
Aveva acquistato duecento quadri di autori di secoli vari, più due che aveva messo in cantina perché la madonna, in uno, era troppo provocante e gli dava troppo lavoro al turno in confessionale, e l’altro perché Gesù Cristo, mentre parla agli apostoli, teneva, e lo si vedeva bene, la mano sinistra alzata e chiusa a pugno. Questo gli aveva fatto perdere ottantotto parrocchiani, che s’erano lasciati plagiare dalla sezione del centro storico del partito mangiacristiani.
Aveva poi acquistati: novantatré statue, tutte di san Pietro con le chiavi in mano; foderato la chiesa di legno intarsiato, comprato ad un’asta di "merce d’arte" sequestrata dai carabinieri in vent’anni di lotta al depauperamento artistico del nostro Paese, tra le quali c’era anche una scena di caccia del Bernini e una decorazione del più antico caffè di Roma; tutte le cassepanche, del fine Settecento foderate con velluto rosso veneziano del Seicento; un ricambio dei "ferri del mestiere", ampolle e piattini, che usava a seconda della stagione e del tempo: a Natale, le ampolle e calice erano di cristallo di Boemia del Quattrocento; due organi e un lampadario di cristallo con una cascata di settecento gocce, comprato da un casinò della Costa Azzurra, che aveva i conti in rosso e ha dovuto trasformare la sua sala da ballo, dove avevano ballato valzer da Napoleone alla Deneuve, in paninoteca e neanche un cliente ci entrava più perché si mormorava che quel lampadario aveva fatto più vittime illustri della prima Grande Guerra; due Citroen del ’30, che le ha messe nel giardinetto; un conto corrente bancario della parrocchia così ambito, che c’era una fila di almeno trenta promotori finanziari ogni giorno davanti alla sua porta.
Don Cisco ci sapeva fare con le vecchiette vedove, soprattutto con quelle che tenevano pochi parenti."

Domenica mattina, domenica mattina: lo ripetevo, ma era come se dicessi, Zorro, Zorro, e con tanto sentimento che, se avessi avuta una spada, gli avrei trafitto cuore e fegato. Ma intanto gli infilavo solo il dito, forte sotto il costato destro. L’effetto? Uno strano eccitamento che avevo preso l’ometto, i suoi occhi più bagnati ed erano scomparse tutte le striature rosse dalle pupille. Ma la sua lingua era più agile e continuò a parlare più velocemente:
"Il portone era stato il suo ultimo acquisto, era di ebano trafugato e commissionato ad un’artista vivente scelto dal borsino, segreto, degli scultori che avranno un mercato futuro, sostanziale.
Il sacrestano Colla incrociò gli sguardi del parroco, pescava di volta in un sacco invisibile, tutte le sue espressioni erano vicine alle scuse, alcune con supplica di perdono. Poi si alzò di scatto, la sedia dov’era seduto, rotolò a terra e con un piccolo grido, acuto, impallidisce in viso.
Ma questo è meglio del circo, c’è suspense nell’andare alla messa a prendersi un pezzo del corpo di cristo… Me lo lascio fuggire, e tutti mi guardano, ancora: Okay uomini e donne e infanti dell’altro popolo, non rompo la tregua.
Don Cisco guardò il sacrestano, teneva le mani giunte sul petto. Poi entrambi guardano il portone. Puntavano l’indice.
Dove guardano? Cosa vedono?
Un brusio e gli occhi e le teste dei presenti che cercano qua e là, e tutti riavviati come capelli, guardano là dove gli indici puntano tremanti.
Uno vicino a me, dice:
"E’ entrato".

Chi è entrato?, dico io. Ma è come farsi spiegare la strada da un sordomuto.
"Ancora una volta! – dissero tutti – Ma si potrà una domenica stare in pace. Chiedo troppo? Perché questo patimento lungo dodici anni?.
"Lui è entrato": dicono altri e si inginocchiano e la loro fronte s’appoggia sul banco davanti.
Io stavo in un angolo, sgonfio come un sacchetto dove il vento non va. Da qui posso solo guardare. Anch’io amo solamente il vento.
La luce del pieno sole che filtrava dal rosone, un cono come sul palcoscenico di un teatro, un cerchio di luce nel mezzo della corsia che divide le panche, una passerella verso l’altare, e il prete e il sacrestano, che è andato vicino al suo capo, e con lui parlotta. Gente assorta come in un treno di notte e qualche parola: "state calmi"; ma sussurrata, detta con gli sguardi e con le mani. E poi un goffo omuncolo, con un mantello nero sulle spalle, che avanza e che si ferma giusto dentro il cerchio di luce. E brusio e tutti che si muovono come una mandria che sente l’acqua ma a cui è sbarrata la via.
Il parroco balbetta, spinge e incita il sacrestano all’organo, e guarda di tanto in tanto l’intruso come se da lui avesse qualche cosa da temere.
I fedeli?
Qualcuno ha la mano di un altro sulla bocca, qualcuno sogghigna, qualcun altro prega.
Il sacrestano?
Non c’era più! Decisi di raggiungere l’organo quatto quatto glielo frego e lo metto in un crocevia laddove sono sicuro che può suonare quella sinfonia che tanto mi piace.
L’omuncolo bardato di nero?
Stava fermo in mezzo alla corsia, squadrava a volte i fedeli sulle panche a destra, altre i devoti in quelle a sinistra.
Il parroco?
Goffamente s’affrettava nei gesti e il rituale: era alla predica.
No quella no, quella proprio no. Vento ridammi forza, fammi volare via! "Aiuto, soccorso, non resisto più! Se c’è qualcuno mi soccorra".
Don Cisco parte come una raffica, e dice:
"Dio con la sua parola ha voluto insegnarci che anche una porta ben chiusa può aprirsi…"
L’omuncolo aprì il mantello, aveva allargate le braccia che restavano tese lungo i fianchi, le sue dita si muovevano, come se suonasse i tasti di un pianoforte invisibile. Proprio come un pistolero.
Aveva una stretta mascherina che gli copriva il viso, gli occhi risaltano come mandorle sulla panna. Un nero mantello riportato sulle spalle che scende sino alle ginocchia, un paio di stivali, neri, ben lucidati, degli speroni con delle stelline e incisioni e righine dappertutto di un dorato scintillante. Un mozzicone di sigaretta spenta pendeva dalle sue labbra, serrate, un pizzico di ironia mischiata a rabbia c’era nella sua espressione. Si girava spavaldo.
Anch’io lo riconobbi: Zorro!, dissi.
Ciao Zorro come va?
Tutti sanno chi è. E’ uno dei tre pazzi che di tanto viene a farci visita. Per tutti è Zorro, il vendicatore degli atei, così si fa chiamare, ed è diventato così perché le sue suppliche fecero cilecca.
Si racconta che un tempo, prima di diventare così, fosse stato un ricco commerciante di orologi e di preziosi. La sua vita era felice, normale al pari di tanti altri, serena in tutto o quasi, se non per una fobia che ne attanagliava l’animo. Chi ce l’ha per il cemento, chi per il buio, chi per il postino: lui ce l’aveva per il ladri. Fu una malattia la sua, che crebbe di giorno in giorno. Spese tutti i suoi risparmi acquistando gingilli che, come gli era stato detto, avrebbero dato massima sicurezza contro i ladri. Ma non ne trovò mai uno che gli desse guarigione dalla sua fobia. Ne provò d’ogni tipo, tutti, finché mai soddisfatto, trovò conforto nella preghiera e pace in tutte le cose divine e sacre. Incominciò dapprima a pregare, poi ad impegnarsi in voti, anche i più impensabili, tutto purché mai nella sua vita si trovasse a tu per tu con un ladro. Ma i ladri vennero, e lui era in casa… impazzire fu più breve del momento.
Ora è Zorro ed ha giurato vendetta di quel dio che non ha saputo aver rispetto dei patti.
M’avevano detto che di tanto tanto veniva qui in chiesa, ma non avevo voluto crederci, la pensavo una barzelletta.
E adesso cosa succede?
Il silenzio in chiesa si tinse di assurda apprensione. Ero a pochi passi dall’organo, quatto quatto, con un’idea sola: se ci arrivo me lo porto via. Mille sorrisi e mille inchini. Se sapessi come farlo farei il segno della croce. Ma non ho mai capito cosa dà più punti nel regno dei cielo, ossia se partire da destra, o da sinistra, o dall’alto o dal basso…
Okay uomini e donne e infanti dell’altro popolo, facciamo una tregua.
E Zorro?
Rideva e rideva, crebbe la sua risata, senza un freno. Poi tacque e con la mano si lisciò i baffetti, una sottile striscia di peli, ma che non andava oltre lo spessore del naso.
Si tolse il capello, a tesa rotonda e rigida, e lo lanciò nell’aria. I fedeli, i devoti di destra della prima panca, si abbassarono di scatto per schivarlo tutti assieme, qualcuno sbatté sul legno indurito dal tempo.
Zorro ne anticipava le imprecazioni e ne diceva delle sue più bestiali. Bestemmiò, ma in un modo che se ne sentono in giro di tali, ha fantasia, mi piaceva ascoltarlo… quasi un poeta della bestemmia, in rima e a volte tecnologica
Okay…
Svolazzava il suo ampio mantello, appeso al collo c’era una grossa catena con attaccata un’enorme sveglia a cucù, al fianco un fodero da dove spunta il manico di una pistolina di plastica bianca e nell’altro una spada incappucciata in punta.
Il parroco troncò l’omelia, e disse:
"Ed ora fratelli alziamoci e…"
"Eh, eh… no cocchetti miei!"
, disse Zorro.
Tutti si bloccarono.
"Voi non andate da nessuna parte. C’è un conto in sospeso che aspetta d’essere regolato… l’ora della vendetta sta per giungere e non c’è pietà!"
E incominciò una poesia di quattro quartini dove dio passa dal condimento per il filetto di ventresca e si trasforma d’incanto:
"Dio in salsa di tonno, che neanche il buco che vede solo marrone gli dà il lasciapassare/ dio che è un sole che scotta e dargli del can per mille volte nemmen ti sora/ dio che c’ha sola una sòla e ogni mattin va in gir a pestare i girin, ma è pupù de gattin/ dio che c’ha il più piccolo pisellin che s’è rinfranca solo quando el ga da cretin anca un putin…"
Zorro teneva il grosso orologio a cucù, lo guardò e se qualcuno glielo guardava glielo mostrava, mettendo il grosso orologio sotto il suo naso.
Poi alzò sopra la testa l’orologio, inarcò la pancia in avanti e la chiesa si riempì di un "Cuccù, cuccuuuuu". Per dodici volte, e qualcuno mi diceva che quello che spuntava dalla porticina era il suo cocorita imbalsamato.
Fui vicino all’organo e non avevo più "okay" da sprecare.
E Zorro?
Accompagnò l’uscita dell’uccello, con la pancia che puntava l’aria davanti e, mentre il cocorita rientrava, muoveva la pancia indietro, come quando si fa quella cosa tra un uomo e una donna.
Eh no, cara donna dell’altro popolo, quella cosa la fai anche tu: lo dissi ad una davanti agli occhiali di tartaruga mentre mi guardava e si faceva il segno della croce: si parte da sinistra.
Il cocorita uscì per dodici volte e tacque.
Zorro disse:
"Questo ora io ti dico servitor del dio: l’uomo vive di solo pane…"
Tutti ascoltavano. Due donne, le più assidue frequentatrici svennero. Il parroco raggelò per la quindicesima volta e davanti alle successive bestemmie che diceva Zorro, e ancora sconvolto per l’eresia, decise per il disservizio e lasciare tutto le bellezze e ricchezze raccolte al giovane Don Luciano, missionario per vocazione, che probabilmente si sarebbe venduto tutto per farsi fregare dalla storia degli aiuti al Terzo Mondo. E lui lo sapeva, perché c’aveva delle azioni in una catena di vendita di vestiti in Africa e India, le famose raccolte stracci, e un riciclaggio di medicine e pasta e altro genere nei supermercati discount all’Est.
Don Cisco stava zitto e per la prima volta cambiò colore degli occhi da un azzurro all’arancione, mentre Don Luciano guardava il soffitto della chiesa ispirato e si fregola le mani, che piene di calli e con il giusto ritmo ricordava tanto il canto previsto quando il prete dice "scambiamoci un segno di pace".
Alcune beghine anche lo intonarono.
Don Cisco teneva il calice con le particole come uno scudo.
Zorro gli era a due passi, sguainò la spadina, con l’altra mano puntava la pistolina al crocifisso. Un bang bang da film muto.
Poi, con movenze d’un gatto mentre caccia, prese da terra il cappello, se lo rimise in testa, si girò e a piccoli balzi raggiunse il portone.
Qui si fermò e alzata la mano libera, infila con l’altra la pistolina nel fodero, con un piccolo gesso bianco con decisone s’avventa sulla porta e lascia un segno:
"zan … zan…", disse
Un enorme zeta era disegnata proprio in mezzo allo spazio che orfano è del quadrato pezzo in bassorilievo.
Zorro fuggì via, lontano si sentiva un canto e una risata continua e urla… come per una vittoria.
Mi sedetti all’organo, non so suonare, ma pensavo al vento.
"La pappa l’è pronta, la pappa l’è pronta… E’ mezzodì gente è mezzodì… parappappapppaaaa…"
Si sentiva ciò in lontananza. Il parroco prese un’ostia consacrata e il sacrestano lo seguiva con in mano il piattino dorato.
I primi fedeli si avvicinano mestamente all’altare:
"Il corpo di cristo…", disse Don Cisco
"Amen!"
Il vento mi viene in soccorso, mi porta via ed è come sempre pieno di tutto.
Ecco come conobbi Zorro, fu una domenica mattina."

Tenevo la testa dell’ometto, che pareva senza vita, lo tenevo stretto in grembo e se mi ci vedevo mi sarei visto solo come una delle tre versioni de "La pietà" di Michelangelo, ma malriuscita.
Fu lì che vidi uscire dalla tasca della giacca una mascherina nera.
Gli accarezzavo i capelli ma con il desiderio di strozzarlo e anche di baciarlo… mancavano cinque minuti e il bar riapriva. Lo lasciai alla sua sorte.

Lo posò con delicatezza e prese un boccale per la birra, quello con il manico.
Lo toccai, e già ne avevo un altro da guardare e dentro un sola parola:
"Ancora, ancora…"


Giancarlo Gandini

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