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Free remasters

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Free remasters

Il fenomeno delle rimasterizzazioni ha assunto negli ultimi anni proporzioni sicuramente considerevoli. Il meccanismo su cui fa perno è, se vogliamo, sottilmente perverso: convincere l’ascoltatore che una versione minimamente ritoccata della sua musica preferita valga la spesa necessaria a ricomprare un album che già possiede.
Ora, a costo di passare per un appassionato grezzo e disattento, devo ammettere che tutta questa differenza tra edizione remaster ed originale io non l’ho mai notata. Sarà che mi ci sono applicato poco, sarà che avrò scelto per la comparazione artisti la cui produzione mal si prestava a tale rinnovamento, sarà che la rimasterizzazione in quei casi sarà stata effettuata con approssimazione: sia come sia, dal punto di vista del puro e semplice piacere d’ascolto non mi sono mai convinto che il gioco valesse la candela. Il sospetto che si è allora fatto strada in me è il seguente: per apprezzare sul serio i benefici della rimasterizzazione occorre non solo un orecchio da vero intenditore, ma anche un impianto stereo all’avanguardia ed un sistema di diffusione capace di evidenziare ogni minima sfumatura del suono. In tal caso però i remasters sarebbero un prodotto a dir poco d’élite e difficilmente affiorerebbero con tanta pervicacia sugli scaffali.
Questo quesito magari se lo saranno posto, tempo fa, pure le case discografiche: e come vi hanno fatto fronte? Con l’idea geniale delle bonus tracks. Ovvero: assodato che un remaster non presenta miglioramenti poi così mirabolanti al sound, non sarà forse il caso di offrire all’acquirente un motivo più fondato per cui investire i suoi risparmi? Ed allora, perché non riesumare dai magazzini versioni alternative, prove di studio, canzoni a suo tempo accantonate e mai pubblicate; indi impacchettarne un po’ per benino, dare loro eventualmente un’aggiustatina e, voilà!, aggiungerle all’edizione originale del disco? Si tratta di un’intuizione geniale. Ora l’appassionato si trova tormentato e roso dal dilemma: potrà o no fare a meno della prima versione del singolo X, piuttosto che di un’inedita esecuzione di Y proveniente da un soundcheck? Facile per il vero fan cadere in tentazione… e riemergere dal negozio, come nel mio caso più recente, con l’intera discografia dei Free ristampata negli ultimi mesi dalla Island. Ma… un attimo, chi sono questi benedetti Free? Urge qualche precisazione…
Sono abituato a ricevere sguardi vuoti quando mi metto a parlare dei gruppi che sono solito ascoltare. Talvolta invero i miei gusti si rivelano in relativa consonanza con quelli che vanno per la maggiore, ma solitamente faccio fatica ad incontrare qualcuno che abbia quantomeno sentito nominare le band per le quali vado pazzo. Con i Free, questa speranza non mi si è neppure mai affacciata: non fosse altro che per il fatto che si sono sciolti da una trentina d’anni. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, però, erano una delle più belle realtà del british blues: abbastanza per spendere su di loro qualche parola in più.

Paul Rodgers (voce), Paul Kossoff (chitarra), Andy Fraser (basso) e Simon Kirke (batteria) erano ancora adolescenti al momento di entrare in studio a registrare il proprio debut album, intitolato Tons Of Sobs (1969): Fraser, addirittura, aveva appena quindici anni! Stregati come tanti loro coetanei dai reiterati ascolti del blues del Delta, i Free si erano levati idealmente dalle stesse acque limacciose del Mississippi che avevano testimoniato l’ascesa dei grandi bluesmen neri del passato. Il loro esordio, di fatto, è un disco prettamente e schiettamente blues: concepito e registrato in Inghilterra da quattro ragazzi bianchi, ma pregno fino all’ultimo solco degli aromi più neri mai arrivati in Europa dall’altra sponda dell’Atlantico.
Il blues però non è destinato a rimanere per i quattro solo una lezione da mandare a memoria e ripetere pedissequamente. In fin dei conti siamo alla fine degli anni Sessanta, quando gente come i Cream, i Led Zeppelin e Jimi Hendrix sta mostrando al mondo cosa possa nascere dall’unione della musica tradizionale dei neri d’America con la potenza degli amplificatori elettrici ed il virtuosismo strumentale. I Free si accostano a questo filone con una certa calma. Il loro approccio rimane molto rispettoso delle origini, come testimonia anche il successivo, omonimo Free (1969): si delinea però uno stile molto personale, influenzato tanto dal rhythm’n’blues quanto dal soul, in particolare se si pensa alla caldissima interpretazione vocale di Paul Rodgers.
A regalare loro la prima vera notorietà ci pensa Fire And Water (1970), disco bellissimo ma soprattutto trainato da un devastante singolo apripista come All Right Now. Il gioco è fatto, pensano in molti: ai Free si stanno per schiudere i cancelli dello stardom. La previsione ottiene presto conferma: il gruppo si esibisce tra l’altro al celebratissimo festival dell’isola di Wight, dividendo il palcoscenico con mostri sacri quali gli Who. Pare davvero che i Free siano entrati in pianta stabile nelle zone più nobili del rock blues britannico.
I problemi cominciano a venire a galla all’altezza del successivo Highway (1970). Pur registrato sotto pressione, non indipendente dallo stress dovuto alla fama improvvisamente acquisita in tutto il mondo, agli occhi della band è l’album migliore fin lì prodotto. I quattro si sentono talmente fiduciosi e gasati da imporre alla casa discografica la scelta quale primo singolo di The Stealer, laddove i responsabili avevano proposto invece Ride On A Pony. Sfortunatamente, The Stealer non fa breccia nei cuori degli ascoltatori, trascinando al fallimento commerciale anche l’intero album da cui è stato estratto: non estranea alle responsabilità all’insuccesso, senza dubbio, è anche la stessa copertina del disco, la quale neppure reca scritto il nome del gruppo. Scelta azzardata del singolo di lancio, cover anonima, scarso impegno promozionale della casa produttrice: tutto ciò si rivela sufficiente a far passare in second’ordine la qualità, elevatissima, della musica.
Il contraccolpo del fiasco si fa sentire. La convivenza fra le forti personalità dei due songwriters, Rodgers e Fraser, si fa sempre più problematica: per giunta, entrambi tendono ad ingabbiare in misura sempre maggiore la fantasia creativa di Kossoff, imponendogli in maniera piuttosto umiliante di interpretare i brani esattamente secondo le istruzioni da loro impartite. L’unità del gruppo, originariamente suo principale punto di forza, non è più quella di un tempo: così, nel maggio del 1971, i Free decidono di sciogliersi. Il mese dopo esce Free Live! (1971), che ricorda al pubblico quanto grandi fossero i quattro da vivo e senza dubbio acuisce il rimpianto per la loro decisione di cessare l’attività.
Chi proprio non riesce ad accettare la fine dell’avventura però è il chitarrista Paul Kossoff. Per lui, la separazione del gruppo rappresenta la dispersione di quella che vedeva come una vera e propria famiglia, senza la quale ora si sente perduto. Assieme al batterista Simon Kirke, al bassista giapponese Tetsu Yamauchi ed al tastierista texano John "Rabbit" Bundrick, mette insieme un nuovo gruppo che licenzia addirittura un album (cosa che non riesce invece ne’ ai Toby di Andy Fraser ne’ ai Peace di Paul Rodgers, entrambi frutto della diaspora di qualche mese prima); ma allo stesso tempo affonda sempre più nella dipendenza dalla droga. Il suo flagello personale è il Mandrax, un antidepressivo che Paul consuma in quantità industriali: la sua situazione è così grave che i suoi compagni di un tempo decidono di seppellire le antiche rivalità e riportare in pista i Free, non fosse altro che per salvare Paul dalla sua spirale di autodistruzione.
Il risultato di questo commovente tentativo esce con il titolo di Free At Last (1972), invero un po’ ottimistico. Non appena il tour promozionale americano prende le mosse, tutti i problemi infatti riemergono all’istante: Fraser e Rodgers si sopportano a malapena, e come se non bastasse la salute di Kossoff lascia molto a desiderare, rendendolo estremamente inaffidabile nelle sue performance sul palco. E’ proprio lui, demoralizzato dalla degenerazione degli eventi, a proporre la sospensione del tour: proposta accettata dal resto del gruppo, a cui fa presto seguito la decisione di Fraser di lasciare nuovamente la band, questa volta definitivamente.
Senza bassista e chitarrista, dato che Kossoff si è impegnato a seguire una terapia disintossicante che pare aver avuto effetti mirabolanti su Eric Clapton, i due rimanenti Free onorano gli impegni presi suonando in Giappone con Yamauchi e Bundrick. L’estemporaneo rapporto di lavoro con i due musicisti si sviluppa in una collaborazione più intensa, al punto che i quattro entrano in studio per registrare l’album Heartbreaker (1973): della partita è anche Kossoff, che ha concluso la propria terapia. L’illusione di ritrovata armonia però è di breve durata.
Poco dopo la pubblicazione del singolo Wishing Well, Paul cade vittima di un attacco epilettico (terribile effetto collaterale dell’astinenza da Mandrax) nel corso di un soundcheck presso Newcastle. Sebbene recuperi in tempo per fornire il suo apporto alle successive registrazioni, la sua ormai proverbiale inaffidabilità in studio costringe Rodgers ad arruolare un altro chitarrista, Snuffy Walden, introdottogli da Bundrick. Il punto più basso viene toccato tra il dicembre del 1972, quando il manager del gruppo si incarica di comunicare a Kossoff la sua espulsione dal tour in corso, ed il gennaio del 1973, quando Paul si ritrova citato sul retro della copertina del nuovo album come additional musician e non come membro ufficiale della band: è il punto di non ritorno. Rodgers tra l’altro ha trovato in Bundrick un sostituto di Fraser tanto nel bene che nel male: ovvero, non solo in quanto ad abilità e fantasia creativa, ma anche per personalità e capacità di mettere in dubbio la sua leadership. Le premesse per uno scioglimento definitivo ci sono tutte, e conducono i Free alla tomba nel luglio del 1973.
Rodgers fonda immediatamente la Bad Company, il cui batterista è Simon Kirke; Yamauchi entra a far parte dei Faces; Bundrick torna a fare il session-man, finendo per collaborare a lungo termine con gli Who; Kossoff si impegna in modo piuttosto irregolare con un nuovo gruppo, i Back Street Crawler, ma muore nel 1975 per un attacco di cuore durante un viaggio in aereo. La storia si chiude qui.

Descrivere la musica dei Free non è facile. O meglio, lo sarebbe, se non fosse che le fredde parole ed i commenti squisitamente tecnici non danno mai ragione del sentimento e del calore che sta dietro alle sette note. Il migliore consiglio che si può dare in questi casi è sempre lo stesso: ascoltare. La torrida vocalità di Paul Rodgers, l’istintiva e comunicativa chitarra di Paul Kossoff, il basso trascinante dell’enfant prodige Andy Fraser, la batteria solida e sostanziosa di Simon Kirke, ma soprattutto la magica alchimia che unisce tutti gli ingredienti: tutto questo merita di essere indagato di persona, senza affidarsi alle opinioni altrui.
Descrivere la qualità dell’operazione portata avanti dalla Island Records è invece, almeno in questo caso, piuttosto semplice e lusinghiero: giudico infatti questi remasters estremamente interessanti: il numero di brani aggiunti rispetto all’edizione originaria non è in nessuno dei casi inferiore a sei, il che per album originariamente previsti sulla lunghezza di otto o nove non è male; dal canto loro i booklets, per quanto non corposissimi, forniscono un compendio più che opportuno della vita artistica del gruppo, nonché qualche nota introduttiva alle bonus tracks (ancor meglio sarebbe stato comunque se i curatori avessero esteso le medesime note anche ai brani già noti).
Probabilmente l’appassionato occasionale (ma una tale figura, nel mondo della musica usa-e-getta, avrà realisticamente qualche possibilità di imbattersi nei Free? Lasciatemi dubitarne…) si sarebbe accontentato degli originali, ma l’intenditore sarà senza dubbio grato di poter accedere a tanto materiale aggiuntivo: e dopotutto è proprio l’intenditore colui al quale le iniziative come queste puntano…

Fabrizio Claudio Marcon

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