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Notte d’incontro sereno

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Notte d’incontro sereno

Tutto scorreva rapido, veloce, oltre il finestrino del treno che rappresentava l’unica barriera fra me e la notte, ormai nera di china, che era calata già da qualche ora.
Non ricordo bene che ore fossero, forse le undici o forse le tre del mattino, non ricordo; ero stanco, quello sì, ma non riuscivo a prendere sonno, forse per il movimento del treno che non mi ha mai conciliato il riposo, o forse perché ero troppo attratto dal paesaggio esterno, immerso nel buio, da cui emergevano saltuariamente come piccoli fari, le luci delle strade, dei paesi, della ferrovia.
Mi sentivo strano, avevo un leggero mal di testa, dovuto probabilmente al fatto che non dormivo da parecchie ore, e stavo così sospeso in uno stato quasi di dormiveglia. Ero entrato in quel mondo che rappresenta la flebile linea divisoria tra
sogno e realtà, che si attraversa subito prima di addormentarsi, quando non si è più svegli.
Ci stavamo dirigendo a Parigi. Il soggiorno ad Amsterdam era finito, i tre folli giorni si erano conclusi rapidamente;
ricordo che l’ultima stazione attraversata era quella di Haarlem, poi il nulla, poi il treno si era rituffato nella pece ed aveva proseguito la sua corsa, come un animale che torni a casa, veloce, sicuro della strada da percorrere, con lo stomaco
pieno di ignari e stanchi passeggeri, che come detriti nel fiume, si fanno trascinare, trasportare impassibili. Per un attimo uscii dai miei pensieri, ed incuriosito, quasi divertito, studiai le scie luminose che i lampioni delle strade disegnano sul finestrino sporco, segnato da numerosi viaggi, che sembrava quasi venire animato da questi rapidi flash di luce, sembrava quasi prendere vita, lui fermo ed inerte pezzo di vetro, unico baluardo fra me ed il mondo circostante.
Me ne stavo lì seduto ad osservare tutto questo, quando notai che le scie luminose, unico indice del movimento del treno nella notte, andavano accorciandosi, lentamente ma visibilmente; poi un lampo di luce, tutto il treno ne fu immerso, un lampo di luce diverso dal solito e più intenso, tanto che dovetti socchiudere gli occhi non più abituati a tanta iridescenza.
Eravamo entrati in un’altra stazione, non ne ricordo il nome, nella quale il treno evidentemente doveva fare una sosta. Il luogo era deserto. Solitarie macchinette distributrici pubblicizzavano famose bevande e promettevano colorati e gonfi pacchetti di caramelle per pochi spiccioli; squallide panchine, vecchie e graffiate da innumerevoli mani nei secoli, aspettavano che qualcuno le scaldasse, che qualcuno si posasse su di loro, per dare così un senso alla loro misera esistenza, per dare un minimo di conforto a loro, tristi panchine declassate e relegate in una squallida stazione di periferia, invidiose delle ben più fortunate compagne delle stazioni centrali che ospitavano ogni giorno milioni di culi internazionali, realizzandosi così nella loro natura; i pavimenti erano sporchi, coperti da un tappeto quasi continuo di mozziconi di
sigarette e di cartacce di varie dimensioni, forme e colori, per non parlare poi delle gomme da masticare, pluripestate da molteplici piedi, e delle lattine, che sorgevano in strane architetture dal pavimento sudicio; i pavimenti erano opachi,
come non esserlo, e riflettevano altrettanto opaca e triste la luce dei neon appesi al soffitto: in questo scenario mi
sembrava quasi di poter udire, con la fantasia e l’immaginazione, il ticchettio ritmato di un rubinetto rotto, nei bagni
sporchi e puzzolenti di questa povera e solitaria stazione di periferia.
Poi di colpo, quasi per caso, lo notai. Notai la figura che leggermente curva e grigia, attendeva in piedi sul binario
opposto un treno, o meglio il treno, che lo avrebbe portato chissà dove, cambiando la sua vita, dando una svolta alla sua esistenza.
L’uomo era lì, fermo, immobile, impassibile nella sua posizione. Sembrava una persona comune, insignificante, eppure attraeva la mia attenzione, forse perché era l’unico essere vivente in quella stazione post-atomica in cui ci trovavamo.
Come ho già detto, era una persona qualunque, normale, nulla in lui era appariscente, niente era in risalto, non lo era la camicia leggermente stropicciata che indossava, così come non lo erano i pantaloni, che denotavano ancora un resto
fossile di piega laterale da ferro da stiro; non erano appariscenti le sue scarpe, allacciate quasi distrattamente, come non
lo era il suo viso. Aveva occhi scuri, quasi inespressivi, la barba forse di un giorno o due, le labbra sottili, il volto rilassato tranquillo, i capelli pettinati ma naturalmente non in maniera perfetta, normali insomma. Stranamente non aveva bagaglio
con sé, questa forse era l’unica cosa atipica in lui, teneva solo un giornale sottobraccio, ultimo cimelio del giorno finito da poco. Più lo guardavo e più mi incuriosiva; inizialmente non avrei sprecato un istante sulla sua persona, ma ora quasi mi ossessionava il desiderio di osservarlo meglio, di sapere perché si trovasse lì a quell’ora, di conoscere qualcosa di più dell’esistenza di quell’uomo che quasi si confondeva con il grigio della stazione, apparentemente così normale, comune, monotono. Ad un tratto però, mentre fantasticavo in questo modo sul mio nuovo centro di interesse, un pensiero mi attraversò la mente, prima rapido, sfocato, impreciso, poi sempre più delineato: e se quell’uomo fosse stato lì per porre
fine a qualcosa di molto importante? e se fosse stato ad aspettare il treno per consumare la sua vita in pochi secondi? Non so perché pensavo tutto questo, ma cominciava a diventare per me quasi un’ossessione, un pensiero angosciante. Venni preso quasi dal panico, senza un motivo logico, quasi istintivamente, e poi, mentre il mio cuore martellava… TUM, TUM, TUM… sempre più forte nelle mie tempie, accadde. Un fischio nella notte annunciò l’arrivo dell’altro treno, rapido, inesorabile, inflessibile nel suo percorso; si avvicinava, potevo vederne le luci, sentirne il respiro dei pistoni, l’ansimare del motore. Spostai rapido lo sguardo al mio amico, non so perché ma ormai lo sentivo tale, e lo vidi tranquillo e rilassato come al solito, allungare una gamba, la destra! un passo, un’altro, e poi il vuoto; rimase sospeso a mezz’aria, tra la
banchina d’attesa e le rotaie, per un tempo quasi infinito, col giornale sempre sottobraccio, col volto sempre rilassato,
con la camicia che si gonfiava leggermente, non una lacrima, non un rimorso, ma solo la serenità per un gesto che aveva atteso probabilmente da molto tempo, e che ora finalmente lo liberava dal peso di una vita, dalle sofferenze di
un’esistenza. Un lampo grigio, uno spettro in bianco e nero, ecco cosa mi sembrò il treno quando sfrecciò davanti ai miei occhi, quando mi passò di fronte senza curarsi di nulla, impassibile agli eventi esterni; mi alzai, quasi di scatto uscii dal
mio posto, e corsi attraverso una moltitudine di manichini addormentati ed ignari di tutto, fino al passaggio tra il mio
vagone ed il successivo. Feci scattare il meccanismo della porta a pressione del vagone, mi avvicinai lentamente, quasi timoroso al vetro dello sportello d’entrata, mentre potevo sentire il treno che si allontanava con un sussulto nel silenzio della notte. Toccai il finestrino con una mano, poi con l’altra; mi schiacciai contro la superficie fredda e liscia con gli occhi
chiusi. Non volevo vedere, non volevo guardare, ma poi mi costrinsi a farlo. Sollevai lentamente le palpebre, mentre il
mio treno si metteva lentamente in movimento, e lo vidi. Se ne stava lì, inerte, sospeso a mezz’aria, avvolto da una luce chiara, rassicurante e dolce, racchiuso quasi in un nuovo ventre materno. Tuttavia non era più lui, me ne accorsi dopo un istante, era un bambino, una nuova vita, più libera, sicura e serena.
Lo seguii con sguardo incredulo, estasiato, e lui ricambiò, ne sono certo. Lentamente, quasi con un movimento impercettibile, levò una mano, mi sorrise dolcemente e mi salutò, forse per sempre, con un gesto che mi infuse un certa calma, una certa tranquillità. Lui era lì, sospeso a mezz’aria, tra la banchina d’attesa e le rotaie, e scompariva lentamente alla mia vista, al mio sguardo, mentre il treno ripartiva e lentamente ma inesorabilmente si rituffava nella notte nera di china.

Andrea Camporese

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