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Terra Promessa

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Terra Promessa
(Primo classificato – Sezione HORROR)


«Così il Signore disse a Mosè: "Manda uomini
a esplorare i paese di Canaan che sto per dare agli
Israeliti. Manda un uomo per ogni tribù dei loro
padri; siano tutti dei loro capi."»
Libro dei Numeri, 13, 1-3



Caleb si fermò ansimando e si aggrappò per riprendere fiato a uno dei monoliti che si ergevano dalla sabbia. Accanto a lui Safat piangeva e farfugliava qualcosa di incomprensibile, probabilmente una preghiera. Si guardò febbrilmente attorno ma non vide altro che le rovine, immobili ed eterne, che li circondavano da ogni lato, scintillando sotto il sole del deserto.
Rovine a perdita d’occhio, digradanti verso l’orizzonte. Era un piccolo mondo popolato, apparentemente, solo dai resti di quella città sconosciuta: edifici diroccati dalle architetture contorte, colonne pendenti che sfidavano la legge di gravità, incrostazioni di affreschi con simboli sconosciuti, impronunciabili da qualsiasi lingua umana. E quei bassorilievi, così terribilmente realistici, che raffiguravano tutti lo stesso soggetto: creature. Ma non creature conosciute, o quantomeno accettabili dalla mente umana. Creature informi, quasi protoplasmatiche, e orribilmente viscide, dai mille tentacoli sinuosi e primitivi. Solo osservando quelle rappresentazioni, Caleb sentiva un brivido freddo percorrergli la schiena.
Il silenzio del deserto era infranto solamente dal mormorio di Safat e da un innaturale vento che, soffiando tra le rovine, sembrava cantilenare parole sconosciute:
…..Tekeli-li!… Tekeli-li!…
Un’ombra guizzò fulminea tra le rocce a pochi metri da loro e poi tornò a nascondersi, svanendo dietro le macerie. I bisbigli di Safat cessarono. Caleb sentì il cuore sobbalzargli in gola e lanciò un’occhiata disperata a Safat. Non più di due secondi più tardi, senza scambiarsi nemmeno una parola, i due uomini avevano già ripreso la loro corsa forsennata.
Corsero come mai avevano corso prima di allora. I loro respiri somigliavano sempre più a rantolii di sofferenza, i fianchi erano attanagliati da punture penetranti ma nessuno dei due aveva il coraggio di fermarsi. Con la coda dell’occhio potevano scorgere ombre indistinte sporgersi tra i ruderi, correre parallelamente a loro per qualche metro e poi svanire tra le rocce e i detriti. Allora acceleravano l’andatura, nonostante i loro polmoni sembravano sul punto di esplodere per lo sforzo, e tra le loro lacrime e il loro sudore il vento persisteva nella sua nenia spietata:
….Tekeli-li!…Tekeli-li!…
Con un gesto istintivo Caleb si voltò indietro, certo che si sarebbe trovato faccia a faccia con qualcosa di indescrivibile pronto ad aggredirlo alle spalle. Non completò il movimento: inciampò in qualcosa di soffice e franò sul suolo polveroso. La caviglia destra si distorse in una maniera innaturale. Un lampo di dolore l’attraversò e Caleb fu costretto urlare nel silenzio del deserto.
Disteso sul suolo, con la caviglia che pareva infuocata, vide il suo compagno fissare con gli occhi fuori dalle orbite qualcosa sul terreno. Guardò anche lui e riconobbe il loro compagno Gaddi. Giaceva immobile sulla sabbia, con il bianco dei bulbi oculari fissi sul cielo limpido. Era privo di braccia e la gamba sinistra terminava poco sopra il ginocchio.
Caleb represse a stento un conato di vomito.
Tekeli-li!… Tekeli-li!, ripeteva il vento.
Quando tornò a guardare in avanti Safat era già una macchiolina in lontananza. Correva strappandosi i capelli e urlava frasi deliranti di cui si solo alcuni frammenti risultavano comprensibili:
– I grandi Antichi…i proto-Shoggoth…l’abisso nero……-
Caleb sospirò e serrando i denti per il dolore si rimise in piedi. La caviglia pulsava e si stava gonfiando a vista d’occhio. Iniziò ad avanzare zoppicando, ma ogni volta che poggiava il piede destro era costretto a stringere i pugni per non urlare. E lui non voleva urlare, non voleva attirare l’attenzione, perché li sentiva sempre più vicini.
Aveva ragione.
Qualcosa di viscido e freddo, troppo freddo per la temperatura di quel luogo maledetto, gli sfiorò una caviglia. Lanciò un’esclamazione di stupore. La pelle gli si accapponò e istintivamente ritrasse il piede, appena in tempo prima che il molle tentacolo gli si avvinghiasse attorno. Con incredulo orrore Caleb seguì con lo sguardo la superficie della protuberanza, che s’insinuava dietro una roccia a un paio di metri di distanza. La nenia cantata dal vento era più forte e vicina che mai:
Tekeli-li! Tekeli-li! TEKELI-LI!
Tentò disperatamente di correre, mentre il cuore sembrava pulsargli nelle tempie e qualcosa di strisciante lo seguiva silenziosamente. Un alito pestilenziale gli riscaldava il collo, quasi ustionandolo. Non aveva il coraggio di voltarsi. Tutto ciò che vedeva, attraverso gli occhi socchiusi per il bagliore del sole, era una distesa interminabile di macerie, rocce megalitiche, mura in continua distruzione. La città appariva interminabile, vacillante sotto il sole del deserto, e Caleb non poteva fare a meno di pensare: non ne uscirò mai, non ne uscirò mai, mentre una parola antica come l’universo gli bombardava il cervello:
Tekeli-li.
Sentì un urlo alla sua sinistra, insieme allo schiocco di una lacerazione. Vide all’estremità del proprio campo visivo un mostruoso tentacolo sollevare in aria, come se fosse stata un trofeo, quella che sembrava essere la testa di Safat. Si ordinò mentalmente di proseguire.
Si concentrò su un’apertura in un muro diroccato a un centinaio di metri di distanza. Decise di fissare quel punto e nessun altro.
Quella è la mia salvezza, tentò di convincersi. Lì sarò salvo.
Ma la mente umana è debole e incapace di resistere alle tentazioni. Guardò in basso, sul terreno immediatamente davanti a lui, e si accorse con orrore che della sua ombra poteva scorgere solo la testa. Il resto era stato inglobato da un’altra ombra massiccia, deforme, dalla quale scaturiva una miriade di tentacoli frementi.
E’ vicinissimo, pensò Caleb, senza trovare il coraggio per voltarsi, fissando come ipnotizzato l’ombra di uno dei tentacoli staccarsi dagli altri e calare sopra la sagoma scura della sua testa.

Due uomini scrutavano preoccupati il deserto che si stendeva davanti a loro, facendosi scudo dal sole con le mani. Tutto ciò che riuscivano a scorgere era la linea dell’orizzonte dopo l’interminabile distesa di sabbia, tremolante in lontananza per l’effetto del calore.
Uno di loro abbassò lo sguardo e, carezzandosi la lunga barba bianca, ruppe il silenzio:
– Dieci giorni. Sono dieci giorni che gli esploratori sono in viaggio. Dovrebbero essere già tornati. –
– Arriveranno. – fece l’altro. – Arriveranno, Mosè, non preoccuparti. E’ solo questione di tempo. –
– Una questione di tempo? – sbraitò il primo. – Il popolo mormora, Aronne, il popolo ribolle. Sono anni che attraversiamo il deserto alla ricerca di questa fantomatica terra accogliente e siamo stati decimati dalla fame e dalla sete. Tutti si lamentano, dicendo che avremmo fatto meglio a rimanere in Egitto. – Poi , con sottile rimpianto, aggiunse: – Comincio a crederlo anch’io. –
Una nube di polvere si sollevò in lontananza, vicino all’orizzonte. Mosè perseverava nel suo discorso ma ormai l’altro non l’ascoltava più. Contemplava a bocca aperta la nube che si andava espandendo. Dalle sue labbra uscì solo un mormorio incerto:
– Mosè…guarda! –
Mosè si voltò, seguendo lo sguardo dell’amico. Quando vide la nube di polvere pensò:
Gli esploratori sono tornati. L’hanno trovata, è la nostra terra promessa! Ce l’hanno fatta!
Ma quando guardò meglio il suo corpo si paralizzò, una smorfia gli si delineò sul volto. Tutto ciò che riuscì a mormorare fu:
– Signore, perché? –
Aronne già fuggiva dietro di lui, urlando qualcosa che non riuscì a comprendere. Poi, con tutto il fiato che aveva in corpo, urlò anche lui, rivolgendo lo sguardo al cielo limpido e assolato che racchiudeva il deserto come una volta infinita:
– Signore, perché?
Intanto la nube era cresciuta a dismisura. Tra la sabbia che turbinava furiosamente Mosè era in grado di intravedere i tentacoli che fendevano il cielo ottenebrato. Le creature si facevano sempre più vicine, mentre nell’aria tuonava una sola parola, terribile come la collera divina:
Tekeli-li.

Flavio D’Angelo

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