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Oltre il mito del paesaggio americano

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Oltre il mito del paesaggio americano

La nostra memoria filmica è fatta in gran parte di cinema americano, con un respiro dinamico e profondo, in particolare nei western tradizionali e in quelli che a partire dagli anni 60 destrutturano il genere ma rimangono sempre all’interno del mito.
Quest’idea di spazio, che il deserto americano trasmette, e di movimento verso una frontiera che si sposta sempre in avanti, ha contagiato anche molti autori europei in trasferta Usa, dall’Antonioni di Zabriskie Point al Wenders di Paris Texas.
Oggi arriva Bruno
Dumont a far saltare il banco. Chi è costui vi chiederete. Premio Fassbinder (prometteva bene) con la sua opera prima L’età inquieta (1997), film sgradevole, dalla fisicità cruda, nel piacere e nel dolore, già allora compagno di Ciprì e Maresco nella disperazione definitiva. Nel 1999 realizza L’umanità: personaggi che soffrono nella propria carne la sofferenza dell’intero genere umano, natura indifferente che trionfa sull’uomo, concretezza oscena del sesso.
Insomma, avrete capito: un cinema fatto per non compiacere le platee e neanche la critica, che infatti lo accoglie quasi sempre malissimo, con reazioni esagerate: rifiuto, disgusto, derisione nevrotica. Invece piace a David Cronenberg, che lo premia a Cannes.
A Venezia ha presentato 29 Palms, film di orrore sperimentale, ancora regressione, crudezza, violenza, barbarie. La località di 29 Palms non potrebbe essere più lontana nella geografia del cinema da Paris Texas.
Eppure è un cinema che a suo modo merita attenzione. Dumont va anche lui in trasferta negli Usa, si chiede polemicamente perché la gente va a vedere il cinema americano, pensa che ci abbia inquinato la mente, ne vuol recuperare i paesaggi, i codici e i personaggi, del western in particolare: il deserto di Joshua Tree (lo scenario del cinema di John Ford), i cactus, le stazioni di servizio, i drugstore, le macchine, le sirene della polizia. Ma il suo gioco con lo spettatore ha un qualcosa di perverso, utilizza il nostro immaginario pieno di cinema americano per violarlo esplicitamente nel suo lato mitico-turistico, nel rapporto tra paesaggio e figure umane che in 29 Palms diventa isterico, confuso, scostante.
Il regista vuole neutralizzare il racconto (una coppia che litiga e fa l’amore), per guardare oltre i corpi, per scoprire il mistero che ci sta dietro e risvegliare nei suoi personaggi e negli spettatori una paura generata dall’immensità del deserto americano, una paura astratta, l’angoscia contenuta dentro, sollecitata dal fuori campo, da quello che non vediamo ma possiamo solo immaginare alla fine avverrà (e andrà oltre le nostre aspettative): scalpo selvaggio!
Il suo rapporto tra il paesaggio e i personaggi è rovesciato di senso rispetto al mito: un tuffo nell’intimità di una coppia, violata anch’essa nei suoi standard cinematografici tradizionali, oltre l’incomunicabilità antonioniana. Un cinema scorticato, come i suoi protagonisti, disperato e disturbante, per qualcuno morboso e insostenibile. Eppure in alcuni momenti, al di là della noia (anch’essa meccanismo mentale straniante?) riesce ad esprimere un sentimento vero, quello di un rapporto animalesco e sofferto, tra due individui chiusi nel proprio mondo, un lui con un egoistico bisogno di soddisfare il proprio desiderio, una lei masochisticamente aggrappata, attratti reciprocamente, ma incapaci di vera apertura all’altro.
Dumont ci lancia dal suo pianeta un segnale (di aiuto?), indifferente al se e a chi potrà raccoglierlo. In Italia il film uscirà distribuito dalla Filmauro (specializzata in Boldi-De Sica) che punterà su un inesistente scandalo sessuale per richiamare gli spettatori, lo farà uscire magari nei gelidi multiplex (specchio di un’altra alienazione da consumo) e lì non troverà mai un suo pubblico.

Paolo Baldi

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