KULT Underground

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E il cagnolino rise – A.A.V.V.

10 min read

12.00  € – P. 256
TESPI EDITORE
 
In onore di John Fante, un’antologia di racconti curata da Pedro Adelante. Introduzione di Pedro Adelante (curatore). Racconti di: Liguori, Mazzoli, Dell’Olio, Tribuiani, Lupi, Roversi, Pazzaglia, Bonazzi, Laudace, Cirenaica, Ghelli, Cascio, Morgante, Chiulli, Torzolini, Ferraresi, Santoni, Zabaglio, San. Brevi, immensi, gentili contributi di Fernanda Pivano e Lawrence Ferlinghetti.
 
Non sta bene che faccia una recensione, perché faccio parte del gruppo, ma vi consiglio di leggerla e per farvi venire voglia vi regalo il mio racconto! (Gordiano Lupi)
 
E il cagnolino rise…
 
E il cagnolino rise. Cazzo di John Fante e il suo Chiedi alla polvere. Oggi mi sono svegliato che ce l’ho in testa questa cosa qui. Vecchi refrain di storie passate, Avana per un Infante defunto, Tre tristi tigri, Forse però Pietro potrà proteggerla… oggi ti svegli e ti rimbalza in mente questo motivetto assurdo, domani si cambia, dipende da quello che leggi. E io c’ho la digestione lenta, se leggo Baricco scrivo come lui. Ecco perché ho smesso. Un po’ come l’AIDS. Se lo conosci lo eviti.
Il telefono squilla e interrompe i miei pensieri. È mio padre.
Assume un tono grave per comunicare una brutta notizia.
“È morta zia Franca” dice.
Cazzo, penso. Questa non ci voleva. Un invito a un funerale non è il massimo. Magari se telefonava un editore, uno dei tanti che gli ho spedito l’ultimo romanzo, ero più contento. Lo so che i romanzi non li pubblica nessuno, che devi scrivere solo saggistica, cinema e cronaca nera, ché se non sei famoso e non passi il tempo in tivù a cazzeggiare chi te li legge i romanzi, come ha detto una volta un mio amico editore, uno dei più tirchi del mercato, uno che non paga i diritti neppure sotto tortura. Bene. Sono cose che sappiamo. Non doveva dirlo lui.
“Oggi c’è la funzione” continua mio padre.
Dico che mi dispiace. Che ci sarò di sicuro. Che non posso mancare. Abbiamo giusto il tempo. Mio figlio esce alle quattro da scuola, mentre la messa è alle tre. Un’ora piena per ricordare zia Franca.
Lo dico a Cristina.
“Dobbiamo andare” fa lei.
Dobbiamo andare sì, penso io.
Zia Franca c’è stato un periodo della mia vita che è stata importante. Ricordo un’estate al mare sulla spiaggia di Carbonifera. Lei mandava avanti una pompa di benzina dalle parti di Follonica. Mi sembrava un paradiso quel piazzale puzzolente di nafta tra autocarri e cisterne. Era il regno della mia fantasia. Era l’estate di Rischiatutto in televisione, Mike Bongiorno eroe degli anni Settanta, imperdibile sogno del giovedì sera, noi a fare il tifo per Inardi, Latini e Longari, come fossero calciatori. Leggevamo fumetti dell’Uomo Ragno, mito in calzamaglia che veniva da lontano, combatteva lucertoloni giganti e folletti maligni, minacce assurde e mostri infernali. Noi credevamo fosse tutto possibile. Spiagge bruciate dal sole, ricordi anneriti tra benzina e gasolio, pantaloni corti, ginocchia sbucciate dopo una caduta sul cemento sognando di volare da un palo all’altro come Fabio Cudicini. Capitava che sognavo il futuro. Povera zia Franca. Adesso sono qui che lo vivo, questo futuro. Non è mica uguale a come lo immaginavo. Però è pur sempre un futuro. E tu non ci sei. Ricordo una fine d’anno a casa di zia Franca. Ricordo che da piccolo dormivo da lei, quando babbo e mamma partivano per chissà dove. Ricordo che era venuta alla presentazione del mio ultimo libro. Ricordo un sacco di cose e rammento che non la vedevo da mesi. Preso dalle cose della vita non ti accorgi neppure di chi muore. Poi ti arriva una notizia così, tra capo e collo. È morta zia Franca. E pensi che avevi tante cose da fare, custodire pensieri, tradurre scrittori cubani e far sorridere quel cazzo di cagnolino così caro a John Fante. Tutto, meglio che passare due ore in chiesa, sentire un prete dir messa e salutare parenti.
“Vado bene vestita così?” chiede Cristina.
Interrompo la spirale dei ricordi. Si torna in diretta.
E il cagnolino rise, penso. Lui resiste, vecchio tormentone del passato.
Brava Cristina. Tu sì che lo sai come si scrive una storia. Dialoghi. Azione. Altro che flashback!
“Certo” rispondo.
Gonna nera e maglione grigio. Tenuta perfetta da funerale. Io jeans e camicia. Va bene così. È tanto che non metto la cravatta. Sembra che non vada più di moda. Meglio così, ché a me la cravatta mi soffoca, stile nodo scorsoio applicato al collo. Mangiamo in fretta e usciamo. Fa caldo, pure se è novembre, un vento di scirocco tormenta i capelli. So che dovrò sorbirmi la menata sul tempo. Non ci sono più le mezze stagioni, c’è il buco dell’ozono, il sole fa male, non è come una volta e via col tango.
Zia Franca la portano alla chiesa dei frati, un vecchio monastero francescano che tutti chiamano così pure se ha un altro nome. La chiesa dei frati ha una scalinata così bella che la gente del posto dove vivo ci fa la fila per sposarsi, anche se dopo un paio d’anni va tutto a puttane, ma questo è un altro discorso. La chiesa dei frati domina un panorama di scogliere, isole lontane e fabbriche puzzolenti, sintesi d’un paese edificato tra miseria e nobiltà, come direbbe Eduardo. Zia Franca non ci veniva mica in chiesa, giusto a Natale e a Pasqua, se ce la portavi a forza. Non era credente, zia Franca. Una volta era stata comunista, andava alle Feste dell’Unità, cantava Bella Ciao e Bandiera Rossa. A Piombino negli anni Settanta s’era tutti comunisti. Adesso dove ti giri trovi un buddista. Mica lo so se abbiamo cambiato in meglio.
Entriamo in chiesa. Facce tristi d’ordinanza. Condoglianze. Insomma, le cose di sempre. Non è mica facile salutare tutti questi parenti, penso, C’è gente che non vedo da anni. È venuto anche il cugino di Roma, insieme a moglie e figlio. Mi faccio coraggio e saluto. Ci voleva il funerale, penso. Ci sono anche il babbo e la mamma accanto al cugino.
Mi avvicino. Cristina è con me.
“Non fanno la messa” fa lui.
“Perché?” chiede mia moglie.
“Solo la benedizione. Non era credente”.
A che serve la benedizione se non credeva? Penso.
Non apro bocca però. E il cagnolino rise. Ne avrebbe motivo.
Fa parte di un’abitudine, lo so. La vita è fatta di abitudini. Pochi ci rinunciano. Pure io ho smesso di scagliarmi contro preti e religioni. Di questi tempi sono il male minore. Avanti con le abitudini. Tanto…
“Era così buona”, “Stava così bene”, “Chi se l’aspettava?”.
Come non te l’aspettavi? Aveva quasi ottant’anni, povera zia Franca…
In chiesa odore d’incenso su fiori che sanno di morte, gente che mormora piano parole tra colonne di pietra. Stringo qualche mano, saluto, penso ad altro. Al mio cagnolino che ride, al vecchio Bandini, pure a Hemingway che parte per la pesca d’altura. Cojimar, Alamar. Altri tempi…
Mio padre interrompe la spirale dei miei pensieri. Parla d’altro. Dice una cosa che non c’entra niente con il funerale, come capita spesso quando finiscono i temi legati al mi ricordo.
“Hai visto la televisione ieri sera?” domanda.
“La televisione?” faccio io.
Saranno mesi che non guardo la televisione. Ho sempre un sacco di cose da fare. Leggere, scrivere, allenare i miei stati d’ansia… Eppure la sua è una domanda normale. Qui dentro, a vedere dalle facce, c’è pieno di gente che guarda televisione. Mica leggono Chiedi alla polvere.
“Sì, la televisione. C’era un film di Arbore”.
“Quale?” chiedo sorpreso.
Non me l’aspettavo una cosa intelligente in televisione. Ero rimasto alle risse, ai balletti di Busi, a Sgarbi che grida, ai grandi fratelli. 
“Non ricordo. Il titolo era in napoletano”.
“Che cosa mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene…” dico.
“Proprio quello”.
“L’ho visto tante di quelle volte… è un film geniale. Ricordo ancora la scena con un tale che gira in mezzo alla nebbia di Milano, agita un coltellaccio e dice che c’è una nebbia che si taglia con il coltello…”.
“Non mi è piaciuto. L’ho guardato perché c’era De Crescenzo”.
Come si fa a guardare un film di Arbore perché c’è De Crescenzo, mi chiedo. Come leggere Chiedi alla polvere per la scena di Bandini che gira con sotto braccio le copie della rivista che ha pubblicato il racconto E il cagnolino rise
Mio padre ha letto tutti i libri di De Crescenzo, un po’ come me con John Fante, – tra i due la differenza si nota ma lui non lo sa –  e quando lo vede in televisione pende dalle sue labbra.
“A te è piaciuto?” chiede mio padre al cugino.
“Non tanto” risponde.
Risposta diplomatica. Al cugino quel film fa proprio cacare.
“Una vera porcheria” aggiunge la moglie, che almeno è sincera.
Il figlio non parla. Non dice mai nulla. Non esprime opinioni. Se ne sta zitto a mordicchiare le unghie, coi punti neri da strizzare e un testone enorme che pare Charlie Brown. Ha dimenticato la playstation da qualche parte e si sente perso, forse gli hanno detto che in chiesa, durante un funerale, non era il caso. 
“A me Arbore piace” dico. Voi guardatevi la De Filippi, penso.
“Per me è eccessivo. Come nel Papocchio…” dice il cugino.
“Altro capolavoro” rispondo.
“Comicità assurda. Ricorda Benigni quando bestemmiava per dieci minuti di pellicola”.
Berlinguer ti voglio bene! Ho consumato la cassetta. A sentirne parlare mi viene voglia di andare a casa e rivederlo” dico.
“Che gusti, santo Dio! Quel film blasfemo…” fa la moglie.
“Non a tutti piacciono le stesse cose” rispondo.
“Non fanno più i bei film d’una volta” continua lei.
La discussione prende una brutta piega. Il frate armeggia in sacrestia e la benedizione tarda ad arrivare. Avrei bisogno di lui, adesso. Per tirami fuori dai guai. Tanto lo so che non sono capace di stare zitto. Tanto lo so che poi le mollo tra capo e collo che il mio film preferito è Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato e che ho comprato L’ultima casa a sinistra di Craven in Olanda perché in Italia non lo trovavo. Per fortuna incrocio lo sguardo severo di mio padre. Forse ha ragione lui. Finiamola qui. Cristina comprende e mi tira via per il maglione.
“Andiamo a sedere. Tra poco comincia la benedizione” dice.
Sì, andiamo a  sedere che è meglio.
La moglie del cugino borbotta poche parole.
Il frate benedice e recita un breve rosario seguito dall’eterno riposo. Pochi attimi di silenzio e brevi risposte. La bara viene portata fuori da quattro inservienti. Scendiamo la scalinata sotto il sole di novembre. Fa caldo. Lungo le scogliere vecchi gabbiani se ne fregano del mondo. Come i gatti del porticciolo. Come i cani randagi in cerca di affetto. Come quel cazzo di cagnolino sorridente che non mi tolgo dalla mente. Troppo John Fante. Troppi desideri che scivolano via come sabbia del deserto tra le dita della mano. Tanto lo so che l’orologio del tempo non si può capovolgere. Quel che è stato è stato. Non si modifica il destino.
Entro in auto e seguo il corteo funebre.
“Ma l’hai sentita?” dico a Cristina.
“L’ho sentita”.
“Certa gente mi fa incazzare”.
“Tu lasciala dire. Tanto la sopporta tuo cugino…”
Questo è vero, penso.
Al cimitero una bara scende nella fossa. Avrei voglia di piangere ma non ci riesco. Tornano alla memoria soltanto ricordi belli. E mi scappa un sorriso. Aspetta primavera, Bandini! E non prendere la strada per Los Angeles, ché tanto lo pubblicano presto il tuo racconto, pure se non lo leggerà nessuno. La vita scorre uguale, segue il corso previsto dal tempo, segnato da una spirale di ricordi, dai momenti del passato, da una cornice di illusioni. All’orizzonte una nube ha velato il sole. Rientriamo a casa dopo aver salutato i parenti.
“Stasera guardo la televisione” dico appena mi trovo solo con mia moglie. 
“Cos’è questa novità?” chiede Cristina.
“Se danno ancora Arbore non me lo perdo. E poi non ho voglia di scrivere. Non stasera, almeno”.
Le strade del centro sono affollate, come sempre. Gente incazzata che grida. Volti accigliati. Premo il piede sull’acceleratore, caccio via dal mio orizzonte parole inutili e ricordi di morte. Tanto lo so che l’unico senso che posso dare alla vita è in quei granelli di polvere che giorno dopo giorno scivolano via dalle mie dita.
 

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