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Bombe sulla spiaggia

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BOMBE SULLA SPIAGGIA

Parcheggiai la mia Fiat del ’90 lontano un isolato vicino la vecchia edicola, raggiunsi il portone e salii le scale lentamente. Non accesi nemmeno la luce, oramai sapevo tutto di quella vecchia palazzina nella periferia del paese, riconoscevo i pianerottoli dal tanfo che usciva dalle
porte, i corridoi dai soffitti rigonfi e le mura imbiancate dal salnitro.

Arrivai al quarto piano contai tre passi ed infilai la chiave.

Le giornate in fabbrica erano lunghissime, le macchine vomitavano ruote dentate l’una dietro l’altra, la catena di montaggio, gli operai che saltavano come scimmiette sui pallets, sì, scimmie si facevano chiamare, con orgoglio, perché solo loro erano capaci di assemblare un cambio ogni venti secondi e rimanere scaltri nel ribattere a tutta l’umanità

che il signor Ford aveva ragione.

La fabbrica si muoveva regalando mutui per la macchina o per la casa nuova dove gli operai sarebbero vissuti con le mogli ciccione.

Dietro le divise colorate non ci vedevo niente , così come sotto le gonne delle impiegate, e quelli che se le scopavano si sforzavano di raccontare sui muri dei bagni le loro avventure nei container di fuori; si abituavano a fischiettare a fine turno e per lo più si limitavano a
parlare dell’ultimo tipo della Opel o dei guadagni del doppio lavoro. Non vi era dubbio, le trasmissioni che si producevano in quella fabbrica di idioti avrebbero fatto sfrecciare milioni di altri idioti americani nel deserto al confine con il Messico, sulle montagne dello Iowa o fatto
incastrare i tassisti nel traffico di New York.

Rimasi un po’ a guardare la gente camminare frettolosamente dalla finestra affacciata sulla strada principale che portava in Città; il sole si sarebbe ritirato di lì a poco, mangiai un panino comprato durante la pausa, aprii una birra e mi accasciai sulla poltrona grande di tessuto
consunto dagli anni e dall’umidità che aleggiava padrona ormai da tempo in quell’appartamento.

Riuscii a scorgere dalla porta socchiusa della stanza di fronte la scrivania che avevo portato via dalla vecchia casa e una Olivetti elettrica che mi regalò Mike prima di partire; era rimasta lì inutilizzata ma adesso sembrava volesse sfidare in un corpo a corpo un vecchio pugile rintronato.

Raggiunsi la porta e mi sedetti davanti, guardai intorno, il buio aveva già preso il sopravvento e mi chiesi quando avrei trovato il coraggio di affrontarla, quando avrei cominciato a picchiare come un forsennato, a far saltare in aria quei tasti come i denti di un vecchio sul letto di morte.
Eppure doveva essere raccontata quella storia, nessuno sapeva che avremmo potuto salvare la terra dalla catastrofe nucleare, i tre ragazzi che avevano progettato e realizzato il primo modello di bomba all’antineutrone, il futuro dei ragazzi di Via Paninsperna: il padre o il Papa
prof. Michael Armstrong e i suoi due brillanti collaboratori John Lombardi e Jack Ferrara Kristiacowski esperto di esplosivi.

Squillò il telefono.

"Sì?"

"Ciao come sta?". Era Jenny, il suo italiano non era cattivo, aveva solo bisogno di una ritoccata qua e là ed anche l’accento;

"Ciao Jenny, bene e tu?"

"Bene".

Capii che sarei uscito con lei quella sera, sì ci saremmo incontrati sotto l’Hotel Europa alle nove puntuali eccetera eccetera.

*****

Avevo conosciuto Jenny un anno prima, ad agosto. Percorrevo la statale Bari-Taranto; l’asfalto era bollente e rendeva la strada un serpente che zigzagava e moriva schiacciato sotto le ruote. Jenny aspettava lì come la vita uomini ed eventi che ti rendono inutile, che ti fanno cercare Dio senza mai trovarlo.

Arrivai dopo tanti capifamiglia coraggiosi e la notai un po’ nascosta dietro un muretto di sassi multiformi, disposti a formare un mosaico non perfetto, come un puzzle finito da una bambina di tre anni. Jenny si riparava dal sole sotto un albero giallo, aveva la pelle scura e gli occhi
grandi marrone scuro su di uno sfondo lattescente. La capigliatura era tipica delle ragazze di colore, portava delle treccine lunghe come fili d’argento intrecciati, una maglietta a strisce bianche e marrò orizzontali un po’ fuori moda ed una gonna lunga scura, troppo calda per quella giornata.

La vidi uscire senza fretta scansando con cura dei sassi franati, mi disse che si chiamava Jennifer ma io la chiamai Jenny per via di quella canzone che parlava di una che si chiamava Jenny che era pazza. e a lei piacque.

Facemmo l’amore due o tre volte perché lei era troppo grande ed io non riuscivo a rimanerci dentro. Mi strinse forte e tornai a casa con quel profumo addosso che ti lasciano tutte le puttane del mondo e due impronte sul cruscotto lasciate dai tacchi che affondavano ogni giorno nel terreno.

Da quel giorno continuammo a vederci una volta ogni tanto, l’ultima volta era stata cinque mesi prima, all’inizio dell’estate ma da allora non l’avevo più chiamata e lei nemmeno.

Erano le otto di sera, la città non distava più di cinque chilometri, di solito ci mettevo un quarto d’ora per raggiungere quell’Hotel a due stelle nella zona nord. Li ci abitavano le ragazze che lavoravano nei night club ma Jenny viveva in un appartamento dalla parte opposta ai binari; aveva scelto lei di vederci lì la prima volta, e a me non andava di cambiare e poi oramai salutavo il portiere dell’albergo che aveva smesso di incazzarsi quando sostavo davanti al parcheggio.

Mi guardai allo specchio, avevo la barba di due giorni, ma era abbastanza disciplinata a dire la verità, gli occhi divenivano più piccoli ed affossati giorno dopo giorno forse per colpa del bere ed i denti ricordavano lo smalto come una battaglia preistorica.

I capelli erano già troppo lunghi, cercai di tirarmeli indietro con un po’d’acqua ed un pettine che ad ogni passata se ne portava sempre appresso qualcuno. Avevo ventisette anni. Ma ne dimostravo qualcuno di più, tutto sommato non ero male, avevo bisogno di un po’ di riposo tutto qui, di tagliarmi i capelli, le unghie delle mani; mi lavai sotto le ascelle e mi
accorsi che quella sporgenza al posto dell’addome stava appiattendosi, fui contento poi smisi di pensare e spensi la luce. Tutto bene pensai, presi la giacca ed uscii.

*****

La periferia non era molto illuminata, sebbene il paese non fosse tanto grande, contava circa ventimila abitanti la metà dei quali proveniva dalla città o ci lavorava, solo che non avevano abbastanza fegato per restarci.
Avrei fatto una capatina dal tabaccaio e poi dall’enoteca, la serata navigava triste e sola sulle terrazze dei palazzi bassi.

Comprai una scatola di sigari italiani a basso prezzo, un accendino nuovo e lasciai stare i finti sigari cubani moribondi in una cassettina di legno accanto alle solite caramelle che si trovano nei tabaccai. Il commesso dalla faccia inespressiva da giocatore da poker accennò un saluto quando dissi "sera" uscendo, ma lui doveva vendere quei cazzo di sigari falsocubani a
duemila e cinquecento lire il pezzo e sapeva di avermi fregato una volta.
Presi Via delle Mura e mi venne in mente quando avevo dieci anni ed andavo con un mio amico ogni pomeriggio a raccattare qualche spicciolo da suo padre per giocare alle macchinette elettroniche del Bar di fronte.
Ricordai quando mi soffermavo ad osservare le etichette di tutte quelle bottiglie, a pensare da dove provenissero tutti quei liquori, in quali cantine si producessero i vini, quale gente; Tom invece oltrepassava la tendina di spugna che divideva il negozio dal retrobottega e lì dietro
poteva esserci suo padre intento in una mano di passatella con quel viso sempre sbarbato e i pantaloni sempre puliti e ben piegati che in silenzio e dopo qualche giro di birra, tirava fuori dalla tasca anteriore il portafogli e quella miracolosa banconota da cinquecentolire. Quella
modesta somma ci avrebbe permesso, tranne il sabato e la domenica quando andavamo a giocare a pallone, di prendere a calci i videogiochi per tutta la serata e di litigare fino a tardi su chi avesse distrutto per primo l’astronave madre.

Alla fine decisi per qualche bottiglia di vino.

"Non dolce." Dissi

Il banconista dal viso paonazzo ne tirò fuori uno abbastanza invecchiato.

"Primitivo leccese." Si fece avanti lui. "Tredici gradi":

Su di una sedia di legno affacciato alla vetrina laterale, c’era un signore dalla faccia incartapecorita che guardava un po’ fuori ed un po’ me. Lo riconobbi, era l’ex proprietario che una volta giocava a poker col padre di Tom.

*****

Accesi la macchina e scartai uno di quei sigari, mordicchiai un’estremità con gli incisivi, me lo infilai in bocca ed accesi anche quello. Mi diressi verso la provinciale per Bari. Il paese si era improvvisamente riempito di ragazzetti che scorrazzavano a cavallo di moto scattanti
incuneandosi a destra e a sinistra.

Si era levata una brezza fresca e mentre alzai il finestrino alla mia sinistra scorsi una coppia passeggiare tenendosi per mano, il ragazzo aveva forse diciassette anni e la femmina un po’ meno. Pensai a me e alla cognizione della vita che avevo raggiunto fino a quel momento, ai miei ventisette anni, al nulla. Mi chiesi chi avesse capito, per quel che riguardava me non avevo amici, tanto meno una donna cui regalare rose e camminare per i negozietti vuoti del Corso. Avevo un’anima? Cosa ne avrebbero fatto gli Dei al momento del trapasso. Ero un essere che si smontava e rimontava un migliaio di volte al giorno, era la gente, la voglia di esistere che mi fregava. Non avevo idee, niente di niente, solo un lavoro che mi permetteva di pagare l’affitto ed una puttana così così in un albergo così così; smisi di pensare e mi arresi, forse quello lì aveva ragione, diedi una botta di gas, le ruote anteriori scivolarono su
quell’asfalto di gesso e la fila interminabile di negozi svanì.

Ero in anticipo di un quarto d’ora e mi fermai un centinaio di metri prima dell’hotel. Si scorgeva l’insegna grande, gialla e alta sull’edificio, mi piazzai con il muso sul bordo del marciapiedi ed aspettai. Di fronte a me i tabelloni pubblicizzavano la stagione lirica barese terminata già da qualche mese; ricordai quando l’anno scorso ero riuscito ad avere un biglietto per un’ opera di Giuseppe Verdi al vecchio stadio cittadino: rimasi
affascinato dai costumi delle ragazze che facevano le comparse durante il primo atto della tragedia. Indossavano delle parrucche lunghe bionde, corone di orchidee finte sulla fronte e tutù beige che ogni tanto rendevano visibili i contorni delle mutandine sotto i collant colorati che nel frattempo si erano ficcate tra i glutei. Feci attenzione a tutti i saltelli, le capriole e i piegamenti di quelle ninfe sbarazzine tredicenni, poi finì il primo atto e la cosa si fece seria: un omone dalla faccia grigia con la fronte marcata dal trucco gridava vendetta, tremenda
vendetta. Gli orchestrali staccarono i cravattini e sbottonarono la camicia già dal primo atto.

Gli spettatori continuavano a voltarsi per guardare la luna che non so per quale motivo e cosa centrasse brillava di un rosso carminio.

Notai sul marciapiedi una ragazza con un bel culo portare avanti e dietro un cagnolino aspettando che si decidesse a pisciare da qualche parte. Il cane annusava continuamente gli angoli dell’isolato, i pali dei lampioni e il cassonetto all’angolo. Guardai l’orologio erano le otto, infilai la chiave sotto il cruscotto e guardai fuori: il cane stava pisciando sulla
ruota anteriore sinistra.

Jenny era uno schianto quella sera, sembrava la più bella puttana nigeriana che avessi mai visto.

"Ciao, come va?". Dissi

"Bene ".

Non aveva le treccine quella sera, indossava una giacca a quadretti piccoli, un modello sicuramente di qualche anno prima sopra un body nero che faceva risaltare quei seni abnormi, i pantaloni erano di cotone neri un po’ larghi sotto e portava le scarpe con i tacchi alti e tozzi che portava la mattina e che conservavano ancora un po’ di terreno asciutto ai lati della suola. Ad un certo punto pensai all’Africa e a noi due con tanti piccoli marmocchi, alle battute di caccia ai leoni come Hemingway nelle distese di erba secca e di alberi sempreverdi all’orizzonte.
La macchina era già pregna del suo odore, della crema alle rose che le dava
un’aria da leonessa in calore.

Parlammo di cosa ci era capitato durante il tempo che non ci eravamo sentiti.

"Sono stata a Roma" . "e tu?":

"Sono stato qui, niente di speciale".

"Hai lavorato stamattina?" le chiesi con voce indebolita.

"mmh, no non molto".

Poi cominciò a raccontarmi che si era presentata un’altra prostituta che rivendicava il posto, ma lei non la conosceva, non l’aveva mai vista e così lei e Mary erano state costrette a tornare a casa e a rinunciare ad una rissa tra disperate. Continuò ancora qualche minuto a bestemmiare, anche in inglese, poi si calmò e se ne stette in silenzio.

Le accarezzai il volto e ci guardammo negli occhi, poi le misi la mano tra le gambe era un posto sicuro, caldo, era il grembo di una madre.

Inghiottii il ponte che andava a finire sulla costa e presi la via del Lungomare.

Non parlammo molto lungo la strada, in fondo eravamo diversi noi due, lei era venuta in Italia per realizzare il suo sogno di libertà, faceva la prostituta sì ma non sarebbe durata per molto, voleva sposarsi, tanti bambini, una vera famiglia tutto qui, magari trasferirsi in America o in
Germania mi aveva detto. Io invece chi ero, c’erano la città, i locali alla moda, le minigonne, un mondo che si impegnava a nascondere le ipocrisie e a giustificare ogni secondo quel grande dono della vita. Poi c’ero io in fondo. Quale poteva essere la soluzione, avevo pensato un mucchio di volte al suicidio, ma ero un fifone, non sarei potuto riuscirci, ero un perdente anche sul punto di morte, una merda pestata sul marciapiede.

"Hai fame?" chiesi. Sapevo che alle volte saltava qualche pasto quando non aveva abbastanza soldi.

"No adesso no".

"Hai portato da bere?" questa era un’altra cosa che avrebbe voluto fare per tutta la vita.

"Sì è dietro il sedile".

Non guardò, per lei non aveva importanza birra, whisky, mandava giù tutto come me. Attraversammo tutto il lungomare San Giorgio, c’era una strana congiunzione di pianeti quella sera che rendeva Giove e Venere più brillanti e vicini, Jenny non fece caso nemmeno a tutte quelle ragazze sulla banchina che luccicavano come candele su di una torta alla panna.
Ogni tanto i fari di un’auto le rendeva fluorescenti. Cosa avrebbero fatto quelle ragazze dopo: una doccia, avrebbero mangiato oppure avrebbero preso botte dai pappa e sarebbero crollate dal sonno in una stanza povera.

Raggiunsi il porticciolo di fronte una pizzeria che era già chiusa col finire dell’estate.

"Vieni domani a casa mia?" mi chiese accennando un sorriso inventato chissà come.

"Sì, c’è la tua amica?".

"No! ". Si fece seria e guardandomi negli occhi con aria indispettita mi
lasciò la mano.

Sapevo di irritarla ogni volta che le parlavo di Mary. C’ero stato una volta con lei ed era molto meglio di Jenny e lei lo sapeva. Era alta magra con un bel culo sodo ed i capelli neri lisci, strani per una ragazza di colore, e poi si truccava un po’ con un rossetto vivace che dava alle labbra la forma di rose carnose, mi faceva morire. Jenny era decisamente più grassa, aveva dei bei fianchi, un culo grosso, ma la pelle liscia simile a quella di un bambino appena nato.

Intanto i lampioni spruzzavano luci di sodio sulla spiaggia, dal mare arrivava il riverbero delle onde che colpivano piano gli scogli. Si riuscivano a vedere all’orizzonte come puntini, i fari lontani dei pescherecci che stazionavano su di una secca a diverse miglia dalla costa; un pescatore attendeva che una mormora si appiccicasse all’amo e i venditori di sigarette avevano già riposto le cassettine di legno dietro i grossi massi che delimitavano la strada dalle villette multicolori.

Stappai una bottiglia di vino, riempii due bicchieri di plastica che scovai nel vano portaoggetti e Jenny cominciò a bere. Le piaceva, era contenta, non solo di bere ma anche di come si era messa la serata. Quel vino invecchiato doveva aver raggiunto sedici gradi, sapeva di Marsala e di tante ricorrenze e compleanni mai festeggiati; mi trasmise un non so che di malinconico in quel momento.

Finii di bere e cominciai a darci dentro.

"Jack!"

"See". Il respiro mi si era già fatto bollente, insopportabile.

"Lo sai che non voglio che mi lecchi la fica".

"Okay".

Joe Ferrara

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