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Può esser neorealismo all’americana?

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Può esser neorealismo all’americana?

E’ la domanda che mi sono posto addirittura durante la visione del bel "American beauty", l’asso pigliatutto dei Golden Globe statunitensi, vero e proprio anticipatore dei più famosi Oscar. Mentre seguivo le vicende dell’americano medio, splendidamente impersonato da Kevin Spacey1, che di punto in bianco si trova insolitamente fuori posto nella vita che lui stesso si è costruito (o è stato costretto a costruirsi) mi chiedevo dove avevo avuto la stessa piacevole sensazione di superiorità nei confronti della coscienza della società statunitense. La risposta è abbastanza ovvia: al cinema.
Non c’è bisogno di leggere questo articolo per conoscere il mio parere sulle produzioni cinematografiche americane, anche se le eccezioni sono molte, naturalmente. Con "American beauty" ho visto di nuovo messa in croce la famigliola americana, quella che vive nella villetta senza steccato, ha un’auto famigliare ed una sportiva nel vialetto, chiacchiera amabilmente coi vicini durante la potatura delle rose e mantiene un irreale protocollo di comportamenti addirittura tra le mura domestiche. Un protocollo fatto di mani ben aperte quando si saluta, di arredamento sobrio ed ordinato, di abiti scomodi e sempre in piega. Così come già successo in "Cose molto cattive", "Fight club" o, per motivi diversi, in "Tutti pazzi per Mary" il cinema americano scopre la realtà, scopre che il modello di vita che ha sempre raccontato e che ha addirittura contribuito a creare (è nato prima l’uovo o la gallina?) non è sempre così come lo si dipinge. Ecco quindi che il padre represso trova sfogo solo nel farsi una sega durante la doccia, "è il momento più esaltante di tutta la giornata" ci chiarisce subito, la moglie (Annette Bening) maschera con la frigidità un disperato bisogno di "capelli in ordine", di "marito di successo" o di "ristoranti di lusso", la figlia Jane pare un alieno intrappolato in una famiglia di alieni terrestri e amiche lolite simili a Barbie. L’unico in grado di vedere al di là di questa gabbia di vetro pare essere il nuovo vicino di casa dallo sguardo fisso e dalla mania di videoregistrare tutto ciò che vede come se non potesse osservarlo direttamente. Il film parte bene descrivendo le ansie dell’inquieto paparino, le manie della moglie, la trepidazione della figlia, la follia gerarchica del padre del vicino di casa, un ex marine che fa gli esami dell’urina al figlio per sapere se ha fumato marijuana, l’ammiccante sguardo dell’amichetta che fa girare la testa al padre di Jane, il vuoto pneumatico dell’agente immobiliare di successo con il quale Annette Bening è tutt’altro che frigida. Una mattina, complice il caldo forse, tutto questo salta. Lo schema predefinito subisce una variazione repentina e Kevin Spacey ne approfitta subito. Accetta di buon grado il licenziamento e l’adulterio della moglie, si avvicina pericolosamente alla piccola lolita che gli lancia segnali inequivocabili, fuma un cannone col giovane vicino di casa. Tutto sembra finalmente girare ma l’escalation delle sensazioni positive va di pari passo con un senso di agitazione verso il finale, tragico e comico allo stesso tempo. Ed è proprio questo che mi fa pensare ad una comunione di intenti e realizzazioni con gli altri due titoli citati prima dove il tono di commedia amara stempera un po’ l’aria di thriller introdotta all’inizio da una voce fuori campo che parla di un omicidio su commissione.
Passo indietro. Il film è molto bello, ben sceneggiato, ben girato, ben recitato, ben articolato, la confezione mi lascia qualche perplessità, per lo stesso motivo il film è piaciuto moltissimo negli Stati Uniti e per lo stesso motivo l’altra sera il cinema era pieno di 18enni… Il trailer è ammiccante, sembra di andare a vedere "Lolita" o chissà cos’altro, gli attori sono di richiamo (e meritano di esserlo). Quali perplessità? L’accenno un po’ forzato alla presunta passione per l’amica della figlia, un paio di battute di dubbio gusto per fare ridere anche chi non sta capendo il film, qualche luogo comune non intaccano comunque "America beauty" che è da vedere. Perché neorealismo all’americana? Perché questi film sembrano dire "e adesso che posso pagarmi una notte brava a Las Vegas con gli amici ma non la faccio franca, e adesso che ho una splendida casa e una carriera davanti, e adesso che ho una bella moglie ed un bel giardino cosa faccio? dove sono finiti i sogni di gioventù? cosa ho perso di vista?" Se lo chiede anche Kevin Spacey in un bel momento del film quando ricorda l’auto di suo fratello, le risate con la fidanzata, la bimba piccola, le corse nei prati. In una recensione ho letto che "American beauty" cita espressamente il dogma di Lars Von Trier o "The Blair witch project" per la presenza della videocamera: paragone un po’ forzato, per la verità.
In fondo non è il sogno americano quello che si accusa? Forse che dopo essersi riempiti le tasche si sono accorti di avere vuotato la coscienza e l’amor proprio? Perché costruirsi una vita per provare piacere solo con le prostitute, per perdere il contatto con una figlia di soli 14 anni, per ritrovarsi senza lavoro per causa dei libertinaggi del direttore?


Michele Benatti

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Non ha bisogno di presentazioni…

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