KULT Underground

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a Philip Morris

I vecchi erano partiti per il mare due giorni prima, ci eravamo abbracciati e baciati – buona fortuna e telefona presto – e avevo camminato ramingo fino alla stazione, svolgendo il pacchetto di
Marlboro Lights, comprato il pomeriggio precedente.
Non avevo dormito, sarebbe stato frustrante.

Data un’equazione esistenziale inattesa da una casualità di quiproquò: dimenticare di spegnere il gas o investire in buoni del tesoro o lasciare le chiavi nel cruscotto (in una mattina d’inverno) o sposarsi (in una mattina qualsiasi); ci sono molti errori che potreste commettere, ma il più grave è sperimentare qualcosa che tutti vi hanno sconsigliato.

All’una di mattina, in un’afosa notte di luglio, non gravitano molte persone in una stazione di provincia. Qualche tossico, un paio di extracomunitari e il ferroviere di turno. Sulla banchina di sinistra, lo zaino abbandonato tra le gambe – sfumato chiarore nell’oblio di una notte, contorno corroso in un nulla di tenebra, ritratto sbiadito nell’impalpabile sfondo, etc eccetera, un qualcuno qualsiasi attendeva su una panchina di marmo. Fumava Marlboro Lights, aveva i capelli rasati, la barba fatta di fresco e la mia stessa espressione di eccitamento-disgusto. Mi agevolai al suo fianco e
Passò qualche minuto prima che uno dei due si decidesse a dire qualcosa.

Alla stazione di Pescara, quattro ore più tardi, crapulavamo una pasta e un cappuccio. Ci eravamo presentati, ci eravamo conosciuti, e avevamo detto una marea di stronzate – non che il militare sarebbe risultato diverso da quello che ci eravamo palesati – da quanto qualcuno aveva tentato di descrivere. Non era molto diverso. Era semplicemente un’altra cosa. Una diciottenne sul paginone di Playboy può procurarti lo stesso eccitamento di una femmina dal vivo, ma quest’ultima è un’altra cosa, perché riesce a coinvolgere la globalità dei tuoi sensi, perché puzza e profuma, ti carezza e ti graffia, parla e ti ascolta, e sorride persino, quando riesci a farla partecipe. Io e
Luigi, l’altro ragazzo, sapevamo anche questo, che probabilmente sarebbe stato un’altra cosa, che probabilmente i nostri discorsi erano saturi di peripatetia, ma in quel momento era il nostro modo di farci coraggio.

Eravamo fortunati, cinquant’anni prima saremmo stati arruolati nella decima mas e uccisi in un’imboscata partigiana, oppure saremmo fuggiti sui monti, con i nostri nonni, e passati per le armi alla prima controffensiva fascista. Forse cinquant’anni prima (copyright
Emingway) ci saremmo trovati di fronte, l’uno con un giubbotto ammantato di teschi e l’altro con un foulard legato sul collo, ci saremo trovati di fronte in un fronte, ci saremmo fissati per un istante, e il più veloce sarebbe sopravvissuto al secondo, ma in quel momento piluccavamo semplicemente bomboloni alla stazione di Pescara.
Eravamo fortunati, ma erano passati cinquant’anni.

La ferrovia per Sulmona era momentaneamente bloccata. Avanzammo su una corriera sostitutiva. Fu lungo, la corriera raggiungeva tutte le stazioni di collina che ci sceveravano dalla nostra meta. Luigi dormiva e io mi inebriavo del panorama, la prima alba – l’ingenuo rossore del primo schiarire, la resurrezione di uno sfondo disperso, l’imporporamento pomposo dell’impenetrabile visuale, il fresco tinteggio di tutto il contesto, eccetera eccetera, secondo una sequenza che più tardi, nelle lunghe notti ai corpi di guardia, sarebbe diventata familiare.
In quello stesso momento, sul nascere del 12 luglio, molto più lontano, in quel preciso momento, Claudio tornava a casa dopo la notte al lavoro, Andrea + Mauro + Luca sfrecciavano sulla spider di Guido nei pressi di Milano Marittima, Giulio, stanco, si vestiva cercando di fare meno rumore possibile – si vestiva cercando di non svegliare i genitori di Simona che, in maglietta e calzini, si era addormentata nel suo letto di casa.

Alla stazione di Sulmona, un paio d’ore dopo, con nuovi compagni, aspettavamo un mezzo per raggiungere la caserma. Qualcuno se ne stava solo, appartato, qualcuno leggeva un giornale, qualcuno cercava di fare amicizia, tutti fumavano Marlboro lights, avevano i capelli rasati e quella strana espressione di eccitamento-disgusto. Più tardi ci agevolarono su un mezzo militare che si dischiuse solo in caserma.
Un tenente a due stelle prelevò i nostri documenti, e a file inquadrate ci dispose sull’automezzo. Qualcuno mi aveva palesato che il momento più disarmonico è quando la carraia si chiude alle spalle la prima volta. Non è vero. In quel momento conservi ancora stampata sul volto quell’espressione di eccitamento-disgusto.

Questo non è un racconto, è l’ennesimo appello al vostro buon senso.
Per esperienza personale vi assevero che l’eccitamento scompare nel corso della seconda mattina, per cui,
(se non siete un eroe) obbiettate e affossate il sistema.

(un anno dopo)
Raffaele Gambigliani Zoccoli

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