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Frenulosi

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Frenulosi

a Fulvia

Daniela, Daniela la prima ragazza, la prima storia, il primo bacio, le prime lettere with le prime telefonate, e lei così bella, bella davvero, bella soltanto per me. Anni che pensavo a lei stessa, liceale dolce compagna, millenni che inseguivo quell’angelo, quei biondi capelli di seta, e – (quel) dolce pomeriggio di marzo – un miraggio impossibile si era fatto d’un tratto realtà. Io e Daniela, Daniela con me, a fare incredibili cose, a parlare e viaggiare e scherzare insieme, a sfiorarci e baciarci, che col tempo le nostre carezze si eran fatti sospiri, soffi d’amore, e alla fine, sullo sfondo soltanto, il bellissimo istante, l’amore sul serio, io e Daniela, Daniela con me, insieme noi due, ma non c’era stato nulla da fare, nulla e mai più, non ci eravamo riusciti. Sul momento non ci avevo dato (molto) rilievo, non importava, cose che succedono, vergini entrambi, e io
(che) volevo stare solo con lei, vivere (solo) per lei.
Io e Daniela eravamo stati insieme per un anno e di più, e ci avevamo provato più volte e che volte, ma non c’era stato nulla da fare, mai per davvero. Com’era possibile? mi chiedevo sempre più spesso. Poi
Daniela mi aveva lasciato, come al solito, poi Daniela si era messo con un altro, come al solito, poi Daniela aveva fatto l’amore con quell’altro, come i soliti friends vollero (subito) precisare, e io avevo diciannove anni e la mia vita era finita per sempre, perchè non potevo continuare senza di lei, perchè non potevo vivere senza quell’angelo. Ci pensavo sempre, ci pensavo continuamente, ci pensavo dovunque. La nostra storia era finita anche per quello, pensavo. Era terribile, una morte improvvisa, una fine più lenta. Poi qualche mese, ancora e di più, e Nicoletta improvvisa, Nico incontrata a una festa d’inverno, con quei lunghi capelli, Nico bella e stupenda,
Nico soltanto per me. Lei l’amore l’aveva già fatto, ma non era importante, affatto importante, era ancora una storia, ancora momenti, ancora baci e carezze, ancora lettere e sospiri, e infine ancora passione, passione costante, l’amore con lei, io e Nicoletta, Nico per me, e ancora niente da fare, continuavo a non riuscire, continuavo a fallire. Perchè? e non riuscivo a capire. Pensare e pensare, e io che pensavo a me e a Nicoletta, alla nostra storia che finiva per quello, com’era finita con Daniela, al mio strano problema.

Così, dopo troppo pensare, grazie a Nicoletta, a Nico che mi aveva accompagnato fin dentro all’interno, ero allez in consultorio, insieme alla solita mandria di tredicenni mestruate, e una psicologa mi aveva parlato e guardato, guardato e mandato a Castelfranco (nell’Emilia), lontano da Mutina dove bisognava aspettare dei mesi, da un trentacinquenne abbronzato dall’accento un po’ strano, uno yuppie o un qualcuno del genere. Era simpatico, nel senso che un aperitivo al corso lo avresti preso volentieri (con lui), ma non riusciva a non dire cazzo ogni tre o quattro parole. Non c’era nessun motivo per cui dovesse dire “cazzo” sopra ogni discorso, nessuno sul serio, ma l’oggetto riusciva a piacergli. Era la sua grande ossessione, e – sopra un certo senso -, anche la mia.
“allora, dottore?”
“Non preoccuparti, è una grandissima cazzata.”
Seduto su una poltrona da ostetrica, in camicetta & scarpe & maglione, con quelle gambe alzate in avanti, alzate e divaricate insieme. Era imbarazzante, in quell’ambulatorio vecchio abbastanza, con l’odore penetrante dell’alcol, con l’intonaco che – (obliquo) – si scrostava dalle pareti. Il mio nome era finito su una cartella plastificata: ero un numero dell’ospedale di Castelfranco.
“cosa significa?”
“Non è nulla cazzo, te l’ho detto, è una stronzata, ci vogliono dieci minuti. Non preoccuparti, ti opero io all’ospedale.”
Vestirsi il più rapidamente possibile, mutande & pantaloni & le scarpe, con il dottore a scrivere dietro la scrivania. Mi vergognavo a fare cose del genere. Mi sentivo a disagio. Nessuno sapeva di questo problema, non lo avevo detto nemmeno ai miei vecchi. Avrei preferito un dottore più maturo, avrei preferito un uomo tranquillo per una cosa del genere. Ero nervoso.
“allora, dottore?”
“Tra quindici giorni. La settimana prossima sono in ferie, poi la facciamo questa cazzo di operazione. Dieci minuti e poi via, non sentirai un cazzo di male.”

Non ero mai stato in ospedale, mai una volta. Odiavo il sangue e i dottori, non riuscivo a sopportare il dolore. Avevo pagato il ticket e trovato l’ambulatorio, ero stato in fila dietro a (grasse) signore preoccupate soltanto dalla menopausa imminente, ero entrato in una sala dalle luci soffuse, mi ero disteso su un letto rialzato, in camicetta e scarpe e maglione, sotto una lampada fosforescente, tutto coperto da verdi panni di stoffa. Poi un’infermiera non-troppo-giovane-non-troppo-alta aveva imbevuto un grosso batuffolo con mucho alcool, e il mio pene si era fatto piccino (e piccino) mentre lei lo scappellava fino alla base, completamente e laggiù, annegandolo nel rosso cotone. E infine il dottore, con un siringone per dentisti, gengivale, per infilare l’ago…
Un minuto così, con l’ago la dentro, e non riuscivo a non pensare a quel male, a un liquido che piano (e pianino) anestetizzava una cute troppo sensibile.
“Non sentirai un cazzo di niente con questa.”
Poi il dottore aveva cominciato a lavorare, a lavorare con l’infermiera, e io davvero non sentivo più niente, e non volevo vedere e odiavo il sangue e gli uomini e il mondo e ripensavo a tutta la vita e a Daniela e a Nicoletta e alla mia vita con lei ma soprattutto a quello stramaledetto ospedale e pensavo servirà a qualcosa tutto questo? e non ne potevo più e Dio l’operazione non voleva finire e perchè ero venuto li dentro? e la testa girava e scoppiava e proprio a me doveva capitare? e stavo male e non volevo pensare a quello che accadeva li in fondo e non finiva davvero e non finiva mai e la testa girava e
“Cazzo ho finito, è andato tutto benissimo, non preoccuparti se vedi del sangue.”
La testa girava su se stessa mentre mi (ri)vestivo, mentre mi vestivo il più rapidamente possibile, sul piccolo letto, senza guardare la in fondo, in basso e laggiù, la testa girava, picchiava su se stessa.
“Cazzo, non usarlo questa settimana, sabato vieni a togliere i punti.”
I punti? dove? la sotto? e davvero non son uomo se svenni.

Tornai la settimana successiva, stesso ospedale, stesso ambulatorio, stesso studio, stessa infermiera non-troppo-alta-non-troppo-giovane e stesso dottore. Togliere i punti da la dentro è stato il dolore più grande della mia vita, perchè non c’è l’anestesia, e quando ne togli uno sai esattamente il male di quel filo attorcigliato all’interno, e sai che devi sentirlo ancora undici volte, undici interminabili volte.

Io e Nicoletta ci siamo lasciati pochi mesi più tardi, ma due settimane dopo l’operazione abbiamo fatto l’amore per la prima volta e.
E non riuscirò a dimenticare quel primo momento.

Raffaele Gambigliani Zoccoli

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