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Inland Empire

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Una mimesi delle modalità oniriche

Un film folgorante. Con immagini e suoni (la colonna sonora è sbalorditiva), Lynch accompagna lo spettatore, assieme alla sua protagonista/e femminile/i, in una regressione nell’inconscio.
 Il film, dopo circa un’ora delle sue quasi tre, cambia registro. Il contesto narrativo hollywoodiano scompare con un controcampo dentro a uno degli studios, e la materia filmica si fa via via sempre più destrutturata fino a sfaldarsi completamente verso la metà dell’opera. Allorché il film non appare ormai più scisso in una decina di percorsi paralleli, quanto presentare piuttosto alcune “situazioni” che scivolano di continuo una dentro l’altra e si compenetrano (anche con brevissimi flash incastonati tramite dissolvenze all’interno di altri frammenti), senza rimanere distinguibili.
Il regresso all’inconscio è scandito dal sempre più diffuso uso della lingua polacca, che contamina sempre più situazioni, e suggerisce un passato ancestrale destinato a ripetersi, così come le situazioni che si ambientano in una Polonia antica, notturna e nevosa, rappresentano un precipitare verso un ignoto prossimo all’aspetto più intimo, segreto e rimosso delle emozioni e delle relazioni umane.
 
Tutto ciò avviene con una imitazione a mio parere perfetta dei meccanismi che presiedono alla proliferazione onirica.
Alcuni esempi di questa mimesi:
          alcune situazioni si moltiplicano in contesti differenti, e talvolta si replicano le stesse battute. Le situazioni, come scatole cinesi, si compongono spesso di elementi di altre situazioni, ne sono contaminate e le contaminano (così come i sogni si appropriano di frammenti di realtà, contaminati con altri);
          in situazioni diverse compaiono gli stessi oggetti (lampade, cacciaviti), attorno ai quali sembra condensarsi significato – in una ricchezza esplosiva di dettagli significanti che si va arricchendo visione dopo visione;
          molti volti sono gli stessi per personaggi diversi [interpretati dallo stesso attore: i due casi più evidenti – ma non gli unici – sono il marito della protagonista e la moglie del personaggio maschile del film che si sta girando dentro al film, la quale è interpretata dalla stessa attrice che interpreta la tizia che, prima, appare essersi ferita con un cacciavite, e, poi, ne ruba uno per ferire a morte la protagonista che però – si scopre – muore solo nel film nel film];
          diversamente, altri personaggi restano gli stessi ma mutano tratti somatici (basti pensare alla protagonista Laura Dern che, come progredisce la sua regressione all’inconscio, diviene irriconoscibile);
          oltre al primo piano distorto con il grandangolo, frequentissimo, quasi altrettanto frequenti, come nei sogni, sono i primissimi piani di dettagli e particolari gesti perturbanti;
          è più che comune che il prevedibile nesso causale fra un evento e il suo effetto salti completamente, come nei sogni (gente colpita a morte con cacciaviti o colpi di pistola non muore: solo per fare l’esempio più evidente).
 
Non si tratta di un esercizio di stile; la pellicola veicola alcuni temi di notevole complessità.
Dopo un preambolo un po’ pretenzioso nell’ipostatizzare il film prima ancora della sua “deriva onirica” (i conigli, i polacchi, la “lost girl” che piange di fronte a uno schermo: un preambolo che alla prima visione risulta incomprensibile), durante la prima ora del film di ambientazione holliwoodiana Lynch ci parla di come la civiltà reprima l’inconscio, descrivendoci una società umana come una mascherata ipocrita di un’interiorità barbarica-hobbesiana fatta di pulsioni, violenza e nevrosi.
In modo via via più netto, prende poi corpo l’ipotesi che il tema centrale del film sia la sopraffazione maschile sulla donna, declinata attorno al concetto di prostituzione (letterale o simbolica: nel film i due aspetti si contaminano), per quello che esso comporta di diffamazione, degradazione sociale, senso di colpa e frustrazione morale.
La persuasione a “essere puttana” (legata al tradimento) inculca un perverso senso di colpa che insieme è anche percorso di liberazione dai vincoli della famiglia (intesa come gabbia di falsità risentimenti e ipocrisie), della società e della rispettabilità.
Il senso di colpa si traduce in autolesionismo e autodegradazione, in sentimento di inadeguatezza all’essere donna e dunque punizione e ferimento del ventre (con allusione all’aborto).
La liberazione è un percorso parallelo, che conduce al paradossale “lieto fine” conclusivo, attraverso lo sfogo che il personaggio interpretato da Laura Dern compie, in un ambiente di suggestione kafkiana, di fronte a un uomo silenzioso e dagli occhiali storti. In questo sfogo triviale (l’uso di linguaggio triviale, secondo la psicanalisi, si lega alla liberazione di un’emotività repressa) Laura Dern racconta un passato di donna che ha vissuto continue vessazioni, sopraffazioni e umiliazioni da parte degli uomini.
Alla fine del film il suo personaggio, “liberato”, penetra in un dedalo di stanze e corridoi, “sconfigge” l’inquietante personaggio che incarna e simboleggia ogni sopraffazione maschile, e libera dalla sua angoscia la “lost girl” (che è anche l’ “alter ego polacco” della Dern) portandola via dalla stanza dove quest’ultima, dall’inizio del film, piangeva immobile di fronte a uno schermo acceso.
 

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